Subito il regista Massimo Gasparon presenta la chiave di lettura dello spettacolo: durante la sinfonia Rigoletto si traveste da Pulcinella per entrare alla festa del duca, prendendo il vestito bianco, la maschera nasuta e il cappello appuntito da un sacco che si porta dietro e dove ripone gli abiti che indossa (è il povero che si fa buffone per compiacere il potente). Buffone ma non solo; Rigoletto ha un pesante determinismo causale nella corte lasciva del duca: si fa intermediario con la contessa di Ceprano, irride al limite dello sberleffo Monterone, prende in giro apertamente il conte di Ceprano. Per questo Rigoletto “pagherà” con la morte della figlia, nonostante le sue intenzioni siano ben diverse e la figlia stessa gli offra l’occasione di mutare il destino con le ripetute invocazioni al perdono, disattese.
Con le scene e i costumi (tutto di Massimo Gasparon, luci comprese) siamo alla metà dell’Ottocento a Venezia, città dove l’opera è stata pensata da Verdi. L’idea portante è quella di un perenne carnevale che però non contagia il duca (sempre in abito “civile” che pare Alfredo nei vari atti di Traviata). I cortigiani sono tutti mascherati: i costumi coloratissimi sfruttano la tecnica dell’intaglio di motivi floreali-geometrici che giocano con la sovrapposizione di stoffe tono su tono o a contrasto. La scenografia è un elemento girevole a forma di T: il lato orizzontale delimita due arcate marmoree a tutto sesto decorate con affreschi tiepoleschi e figure in stucco bianco che seguono l’andamento curvilineo degli archi, sostenuti da semicolonne con capitelli ionici e corinzi. Il lato verticale separa una piazza raccolta con l’alto portale della ricca magione dei Ceprano affiancato alla piccola porta della casa di Rigoletto e un interno che è sia la casa di Rigoletto che la taverna di Sparafucile, strutturati su due livelli raccordati da una scala: la prima è foderata di legno e leziosa, la seconda è in mattoni neri, lugubre ed essenziale. Lo svolgersi degli atti è segnato dal ruotare della scena che pare enorme negli spazi del Pergolesi, mentre tutto il movimento di comparse, coristi e protagonisti è limitato alla ripida scalinata in proscenio.
Simone Piazzola ha appena 26 anni e debutta il ruolo del titolo; il suo è un Rigoletto dalla voce morbida e pulita: il personaggio, nelle due ore di rappresentazione, passa una gamma amplissima di sentimenti (in tal senso è forse il più complesso del compositore) ed il baritono veronese sicuramente nel tempo giungerà alla totale padronanza del ruolo e delle sfumature che esso consente. Shalva Mukeria è un duca di Mantova non folgorante ma corretto e dalla voce estesa, che non fatica a salire a un acuto sempre pieno e sonoro. Irina Durbovskaya è una brava Gilda dalla voce completa nei registri, una certa fissità nel registro centrale e qualche asprezza non la penalizzano in quanto compensate da generosità. Corretti Evgeniy Stanimirov e Alessandra Palomba, rispettivamente Sparafucile e Maddalena. Veronica Senserini è una diabolica Giovanna; Marian Reste un aitante e giovane Conte di Ceprano; poco incisiva la Contessa di Ceprano di Miriam Artiaco; Pasquale Amato è carente nel grave e il suo Monterone risulta poco temibile. Sostanzialmente corretti Mirko Quarello (Marullo), Saverio Pugliese (Matteo Borsa), Gianni Pace (un usciere di corte in abito militare), Bianca Tognocchi (un paggio della duchessa in vesti femminili). Con loro il coro lirico marchigiano limitato alla sezione maschile e preparato da David Crescenzi.
Giampaolo Bisanti dirige con ampi e convincenti gesti delle braccia, calcando sui toni drammatici privilegiati rispetto alle parentesi elegiache: il dramma è inevitabile, non solo in amore ma anche nelle relazioni sociali. I tempi sono sempre giustamente serrati, il suono della Filarmonica Marchigiana appare poco morbido ma calibrato con gli apporti dal palco negli spazi raccolti del Pergolesi.
Teatro gremito, pubblico molto soddisfatto con applausi ripetuti; bis della chiusa del secondo atto.