Il termine estetica deriva dal greco αισθάνομαι, io percepisco. Gli spettacoli di Stefano Poda questo sono: percezioni estetiche, desiderio di tradurre in immagini le suggestioni musicali. Anche in questo Rigoletto, il cui tema è il confronto (scontro) tra bianco e nero: il nero del duca e di Sparafucile, personaggi “scuri”, ciascuno a suo modo; il bianco di Gilda, innocente che si immola con voglia salvifica. Rigoletto non è nel mezzo ma in tutti e due, quindi non vive nel grigio ma nel bianco e nel nero, allo stesso tempo (ad esempio nell'aria della Vendetta attraversa camminando la scena girevole, quattro ambienti uno bianco e tre neri, uno dopo l'altro, una specie di via crucis che non consente uscite, vivendo).
Il palazzo del duca di Mantova ha due spazi: uno le cui pareti sono rivestite di maschere funerarie, uno occupato da un groviglio di tubi e ragnatele che sostiene torsi maschili nudi trafitti con la bocca spalancata e le mani sul volto. Le maschere rimandano alla classicità e a tempi più vicini a noi (basti pensare ad Adolfo Wildt); al centro di questa stanza parti di corpi, frammenti ed organi che vengono assemblati per sovrapposizione, contenuti in teche di plastica. I torsi, che vagamente richiamano i San Sebastiano della cultura cristiana, sono un mix tra la statuaria classica, l'Urlo di Munch e i calchi di Pompei: una umanità sofferente, distante dalla solita nobiltà festaiola di prammatica.
La taverna di Sparafucile ha un accumulo di passato e di vicende personali, stratificazione di archeologia classica e barocca, calchi di visi, frammenti di statue, un paio di ali, sulla colonna non il classico leone marciano ma un nudo ellenistico. Lo spazio contiene un materasso quadrato di pelle nera bottonata che pare sul punto di sprofondare nella materia nerastra del pavimento, una polvere lavica nera che lambisce tutto, come onda infernale. Stesso “materasso”, ma bianco, nella casa di Gilda, le cui pareti, anch'esse bianche, sono dominate da finestre con le imposte spalancate ma murate; qui la materia granulosa del pavimento è rossa, come il sangue.
Nei costumi dominano grandi cappottoni lunghi fino a terra, neri oppure rossoscuri. Le luci, bellissime come sempre, esaltano la plasticità delle scene, sottolineano momenti e atmosfere in modo assai suggestivo (anche se le scene paiono non giustamente dimensionate nei piccoli spazi del Sociale di Rovigo). La maschere dei cortigiani sono diventate delle “uova” alla De Chirico con una feritoia sul davanti. E ancora uova sono quelle che spesso mimano di reggere in mano le comparse: uovo, rinascita, anima. Come l'acqua che nel finale dovrebbe piovere sul palco ma che a Rovigo non si è potuta avere per lo spazio ristretto del palco.
Gli spettacoli di Poda hanno una cifra stilistica personale e riconoscibile, che riguarda non solo l'apparato scenotecnico ma anche e soprattutto i movimenti. I mimi replicano le posizioni e la gestualità dei protagonisti, oppure danno corpo ai sentimenti in quel momento espressi dalla musica e dal libretto, come la maledizione di Monterone che provoca scosse e spasimi nei corpi che sussultano.
Alcuni momenti sono particolarmente riusciti, come l'assalto dei cortigiani a Gilda, i quali paiono muoversi come animali sulla preda: un attimo prima il mondo di Gilda è bianco, un attimo dopo è nero, basta un piccolo movimento della scena rotante. O anche l'inizio del terz'atto, con “La donna è mobile” cantata mentre il duca emerge da un groviglio di corpi nudi, lambiti di velluto rosso fuoco, lussuria, peccato, nuda e vacua corporeità. O ancora, nel finale, i dettagli della veste candida di Gilda intrisa di sangue, rosso come il liquido che cola dalle scale in proscenio.
Meno convincente il versante musicale. Pietro Rizzo pare non riuscire a garantire l'appiombo tra buca e palco; il suono dell'orchestra regionale Filarmonia Veneta non è cesellato con le finezze verdiane. Nel ruolo del titolo Andrea Zese sfoggia voce sicura e volumi contenuti ma non riesce ad esaltare tutti i colori di Rigoletto, che, nell'arco della recita, tocca un numero elevato di sentimenti, spesso contrapposti. Gladys Rossi emerge sugli altri per gestione della voce sia dal punto di vista formale (anche nelle colorature) sia dal punto di vista sostanziale, tratteggiando una Gilda consapevole e innamorata, pervasa di affettuoso lirismo, luminoso e malinconico. Giordano Lucà è un duca di Mantova dal corposo registro centrale che però si assottiglia verso l'alto, pericolosamente, considerando le zone fin dove quella partitura si spinge; inoltre il tenore non ha il carisma del nobile spudorato e sfacciato che il regista ha pensato (infatti il pavimento delle sue stanze è coperto di banconote: quella è la priorità, non il rispetto degli altrui sentimenti e sofferenze). Precisi Maurizio Muraro (Sparafucile), Elena Traversi (Maddalena che tiene le frange di pelle nera dell'abito come un frustino sadomaso) e Milena Josipovic (Giovanna con velo e sottogola). Fra le parti di contorno è spiccato il Marullo di Gabriele Nani. Completavano il cast Gianfranco Montresor (Monterone), Max René Cossotti (Borsa), Gianluca Lentini (conte di Ceprano), Miriam Artico (contessa di Ceprano), Simonetta Baldin (paggio della duchessa) e Luigi Varotto (usciere di corte). Il coro della città di Padova è stato preparato da Dino Zambello.
Teatro gremito, successo non pieno.