C'è chi provoca solo per il gusto di farlo, e chi provoca con intelligenza cercando di proporre al pubblico qualcosa di nuovo. Il verdiano Rigoletto in scena in questi giorni al Teatro Comunale di Bologna, che è stato firmato dal regista Alessio Pizzech - con l'aiuto di Davide Amadei, autore delle scenografie e di Claudia Ricotti, ideatrice dei fantasiosi costumi, dei movimenti scenici di Isa Traversi, delle luci di Claudio Schmid - direi che proceda in quest'ultimo senso. Qualcosina senza dubbio questo allestimento – nel verso di ulteriore approfondimento - deve al precedente curato dal regista toscano, in quel di Busseto e nell'ambito del Festival Verdi 2015, con scene e costumi ancora di Amadei. Lì scarpe coi tacchi, calze a rete e autoreggenti erano esibite dalle facili donnette del Duca; qui, insieme ad un bustino in cuoio da drag queen, divengono ardito appannaggio del buffone di corte, la cui maschera rimane in bilico fra tradizione – mantello iridato, berretto a sonagli e scettro da clown non mancano – e lontani rimandi del teatro espressionista berlinese. Lo si coglie specie in questo suo equivoco e grottesco vestirsi, metà da uomo e metà da donna, sul quale peraltro Pizzech non insiste a lungo: perché come già a Busseto, Rigoletto si porta dietro ovunque una valigia marrone, come fosse sempre in viaggio; un contenitore nel quale ripone la variopinta divisa di pagliaccio per indossare un anonimo abito color topo, e mettersi sopra un impermeabile grigio. Cose da borghesuccio travet, che porta anche quando - tranquillo come andasse alle Poste – se ne va a ritirare il cadavere del suo nemico, scuotendo al suo ingresso l'ombrello bagnato di pioggia.
A corte le femmine a disposizione dei cortigiani - larve in moderni frac lussuriose e rivoltanti, altro accenno espressionista – sono raffigurate da vaporose bambole dai movimenti robotici, veri automi senz'anima, meri e inconsapevoli strumenti di piacere; e lo smisurato lettone del Duca, trapuntato di rosso velluto, richiama inevitabilmente gli arredi talora baroccheggianti della Casa di Barbie. Pure Gilda ci viene raffigurata all'inizio come una bambolina dagli occhi di cristallo, tutta pizzi bianchi e rosa, gelosamente custodita tra decine di altre bambole d'ogni specie – i suoi giochi d'infanzia – in un grande armadione, geloso scrigno della sua verginità. Solo allorché quest'ultima viene violata dal Duca, Pizzech le consegna finalmente una dimensione concreta di adolescente delusa e tradita, ma pur sempre infatuata del suo primo, immenso amore. Decisamente intrigante è poi la divagazione che vede la tana diroccata di Sparafucile sostituita da un tetro battello fluviale: una sorta di padano Vascello Fantasma, che appare e dispare nelle scure nebbie del Mincio. L'unica menda di questa nuova messa in scena del Comunale potrebbe essere una qualche stucchevolezza dell'insieme, nel compiacimento d'insistere in talune trovate - il tripudio d'amplessi sessuali è cosa già incontrata cento volte - ma è una pecca riscattata in gran parte dalla solida drammaturgia complessiva, che procede dritta con buona coerenza, ed accentua il carattere d'ogni personaggio – struggente lo scambio di sguardi tra Rigoletto e la figlia di Monterone, altra bambolina usata e gettata via - e scioglie benissimo man mano i nodi della trama. Guarda caso il pubblico presente, dai commenti nel foyer ed in sala, pareva diviso fra opposte due schiere: una perplesso/dissidente, l'altra composta da chi pare abbia compreso il senso dello spettacolo. Indizio evidente che il lavoro di Pizzech & Soci – al di là dei pareri d'ognuno – almeno non scadeva nella routine.
Su questo Rigoletto un po' trasgressivo vigilava la bacchetta molto professionale di Roberto Palumbo: per lui, direttore verdiano come pochi, la sua partitura non cela segreti, e Coro ed Orchestra del maggiore teatro felsineo lo assecondano in pieno. Innegabili il compatto senso narrativo, il savio equilibrio, la sobrietà con cui procede; cura il suono orchestrale come pochi, levigando ed alleggerendo lo strumentale senza mai sovrapporlo alle voci, che sotto la sua mano sono libere di aprirsi alla melodia senza essere forzate da tempi inadeguati. Qualcuno potrebbe lamentarsi dello stacco di taluni ritmi alquanto comodi – l'andante di «Veglia o donna» in effetti è parso un pochino catalettico - ma dovrebbe sentite prima il parere dei cantanti; e poi, non è detto che certi rapinosi tempi 'toscaniniani' – in Verdi come in Puccini, von Karajan docet - siano sempre quelli giusti, né tanto meno quelli effettivamente segnati sulle partiture.
Nella nostra recita domenicale - la terza della serie - la prevista presenza di Marco Caria non c'è stata, perché il cantante sardo ha dato forfait per motivi di salute (pure Palumbo, mi dicono, sembra non stesse bene alla prima) ed è stato sostituito da Vladimir Stoyanov, che pure s'era già esibito nei panni di Rigoletto la sera precedente. Ma se la tecnica di base e la gestione delle forze sono avvedute, come nel suo caso, l'inusuale sforzo era affrontabile senza troppo timore: e vien da chiedersi anzi perché non sia toccato a lui – rodato interprete di tante figure verdiane – figurare nella prima compagnia. Bene, con tali premesse prova senz'altro egregia, quella del baritono bulgaro, voce essenzialmente d'impronta lirica, che sa mantenersi fermo sui binari di una linea di canto essenziale, mai forzando l'emissione e restando aliena da inutili platealità. Linea salda nel fraseggio e variata negli accenti, accompagnata da conveniente espressività attoriale, e che rispetta nel suo procedere i segni d'espressione - scritti e suggeriti che siano, non importa. In poche parole: eccovi servito un Rigoletto incisivo e verosimile, perché Stoyanov mette in campo una precisa sua visione del personaggio, carico di umana e sincera passionalità. Imprevisto forse, ma inevitabile il bis richiesto a gran voce da tutta la sala di «Si vendetta, tremenda vendetta».
Quanto a Irina Longu, forse Gilda non è il genere di figura che le si addice meglio. Perché se scenicamente se la cava egregiamente, centrando bene lo slittamento psicologico dalle moine d'una bambola-confetto ad una femminilità consapevole dal côté vocale, al di là dell'indubbia bellezza dell'emissione, non si può non rilevare come nei momenti più eterei, nei passaggi più genuinamente belcantistici - mi riferisco in particolare a «Caro nome», va da sé, ma anche al secondo duetto col padre - si avverta a tratti qualche piccola asprezza, qualche oggettiva difficoltà a sciogliere il canto e librarsi libera sulla parte alta del rigo musicale. Però di questo limite il pubblico – che le ha indirizzato calorosi apprezzamenti, applaudendola a lungo – pare non si sia avveduto. Buon per lui.
Nei panni del Duca di Mantova, Celso Albelo si trova perfettamente a suo agio: ruffiani il timbro e la naturale lucentezza dell'emissione, innegabili sia l'innata padronanza della scena che la spontanea comunicativa. Ecco così serviti su un vassoio d'argento la baldanza di «Questa o quella», l'estasi del duetto con Gilda, il lirismo di «Ella mi fu rapita» e l'impeto di «Possente amor mi chiama», la sfacciataggine di «La donna è mobile»: altrettanti capitoli vincenti, risolti tutti con franca sicurezza centrando così in pieno la sfacciata e libertina essenza del personaggio. Ma a voler essere pignoli, la varietà di colori ed il fraseggio potrebbero essere ancor più curati, alzando ancora – atleticamente parlando - l'asticella ed ottenendo così dal tenore canario il sommo piacere d'un Duca di rara eccellenza.
Epifania quaresimale invece nelle parti di contorno, dove non si sa chi salvare e chi buttare perché, a parte lo Sparafucile di Antonio di Matteo - adeguato per consistenza e cupezza timbrica alla tetra sagoma di sicario - il resto del cast appare veramente mediocre. Alquanto ingessato il Monterone di Andrea Patucelli; molto sopra le righe la rozza Maddalena di Rossana Rinaldi; grossolana resa della Contessa di Ceprano e del Paggio da parte di Marianna Mennitti; incolori o sguaiati gli altri, vale a dire Beste Kalender (Giovanna), Raffaele Pisani (Marullo), Pietro Picone (Borsa), Hupo Laporte (Ceprano).
Ricordiamo che il secondo cast prevede la presenza del Duca di Raffaele Abete e della Gilda di Scilla Cristiano.
(Foto di Rocco Casaluci)