L'11 marzo 1851 Rigoletto debuttava alla Fenice di Venezia; rivederlo in questo marzo dà l'impressione dell'inevitabilità dell'evento, di quella magia che lega il passato al presente in laguna in modo indissolubile come in nessun altro luogo. Rigoletto mancava alla Fenice da vent'anni ed è stato riproposto nella scorsa stagione in autunno con un nuovo allestimento, di cui queste recite, in coproduzione con Reggio Emilia (teatro Municipale, 6 e 9 aprile ore 20), sono una ripresa.
L'ambientazione è contemporanea, anche se non connotata in modo preciso nel tempo e nello spazio, che rimangono generici. La scena di Alison Chitty è costituita da elementi che scorrono da un lato all'altro, cornici grigie di cemento che rimandano a una galleria, a perimetri ideali di uno spazio chiuso e allungato. Tutto è sempre claustrofobicamente chiuso: non c'è apertura, non c'è squarcio di cielo, non c'è aria. Le scene si svolgono in luoghi asfittici, dove la luce naturale non entra, come un sotterraneo opprimente in cui il contrasto coi costumi eleganti (sempre di Alison Chitty) è ancora maggiore. Il senso di grigiore e buio è attenuato o esaltato dalle splendide luci di Valerio Alfieri che creano contrasti cromatici forti, capaci di accentuare gli spigoli dei parallelepipedi e di allungare le ombre in quel labirinto dove gli elementi scenici si muovono un po' troppo.
La regia di Daniele Abbado è essenziale e rende l'azione in modo contenuto, senza quel senso di ridondante barocco che spesso è associato all'allestimento di Rigoletto ma lasciando un senso di distanza e freddezza. Nel primo atto la festa è un mucchio di gente in piedi con ragazze sbattute contro i muri, sollevate come farfalle di una collezione triste e un poco sadica, efficacemente ricreata dalle coreografie di Simona Bucci. Lanciate dal centro del mucchio verso l'alto, le ragazze allungano le mani verso il cielo, a cercare una salvezza che non c'è. Bambole di pezza sottoposte al dominio maschile senza potersi opporre, le ragazze non possono che aprire le gambe e poi accasciarsi a terra.
Quasi da film poliziesco il momento, pieno di tensione, il cui il conte di Ceprano spia da dietro un muro le avances che il Duca fa alla moglie. L'ingresso di Monterone toglie ogni colore e sprofonda la scena nel grigiore più opprimente, un grigiore non attenuato dal bicromatismo rosso-blu per l'incontro notturno tra Rigoletto e Sparafucile che subito si stempera nel buio, mentre Rigoletto si toglie il cerone dal viso con un fazzoletto, come un clown dopo lo spettacolo a cui è stato costretto per vivere.
Nel secondo atto è azzeccato il duetto Gilda-Duca inquadrati in una cornice a metà altezza come Romeo e Giulietta al balcone, immersi in un giallo confortante. Nel momento del rapimento i cortigiani hanno i papillon sfatti, i gilet slacciati, le giacche tolte: dopo la festa, cercano un divertimento cattivo a danno di qualche debole, loro forti nell'essere branco. Meno convincente il terzo atto, con la piccola porta al centro che simbolicamente separa il dentro e il fuori e poca chiarezza sulla morte di Gilda, intuita più che mostrata.
Diego Matheuz dirige l'orchestra con mano sicura, raccordandola alla perfezione con solisti e coro (e questo vale ancora di più se si considera la sua giovane età, ventisei anni). I tempi sono a momenti allargati in modo da evidenziare i chiaroscuri con estrema attenzione ai valori musicali. La musica è scabra, funzionale alla lettura registica, ma non priva di morbidezze e di quell'intreccio di patetismo e tragicità che costituisce l'essenza della partitura, resa sempre in modo incalzante. Il coro, compatto ed affiatato, è stato ben preparato da Claudio Marino Moretti.
Eric Cutler è un duca di Mantova dal fisico possente e dalla voce piena che si assottiglia in alto, non esente da qualche imperfezione di pronuncia. Dimitri Platanias è Rigoletto, meno buffone del solito, un cortigiano che pare il Joker dalla faccia biaccata con gli occhi bistrati e la bocca rossa allungata in due punte verso l'alto come il personaggio cinematografico di Jack Nicholson; la voce è potente e sonora, di colore molto bello, anche se il personaggio rimane non indagato in tutti i risvolti; molto ben affrontato “Cortigiani, vil razza dannata” sugli archi violenti, energici ma al tempo stesso dolci e morbidi. Ekaterina Sadovnikova è una Gilda fragile, scenicamente credibile ma dalla voce piccola e poco precisa nelle colorature. Cupissimo, il volto nascosto dalla tesa di un cappello, lo Sparafucile di Gianluca Buratto. Daniela Innamorati è una Maddalena dalla vocalità adeguata e attorialmente priva di sguaiataggine. Rebeka Lokar è Giovanna, severa governante teutonica in tailleur grigio. Alberto Rota è un conte di Monterone poco tonante e non abbastanza temibile per l'aspetto troppo giovanile. Luca Dall'Amico è un vampiresco conte di Ceprano, accanto alla seducente, sireneggiante contessa di Elena Traversi. Bene il Marullo di Armando Gabba e il Borsa di Iorio Zennaro. Completano il cast Salvatore Giacalone (un usciere di corte) e Anna Malvasio (un paggio della duchessa).
Il teatro ha annunciato, prima dell'inizio della recita, la propria soddisfazione per il reintegro del Fus ed ha ringraziato tutti per la solidarietà. Poi l'inno d'Italia, mentre le luci tingevano di tricolore la Fenice al centro dell'arcone del proscenio.
Teatro gremito, una piacevole Babele di lingue nel foyer all'intervallo; durante la recita e alla fine moltissimi applausi.