La Fenice propone a breve distanza due opere della trilogia popolare e fa seguire la Traviata (fortunata produzione più volte riproposta sul palcoscenico veneziano) da un nuovo allestimento di Rigoletto per colmare un’assenza nel cartellone durata quasi vent’anni.
Daniele Abbado (con scene e costumi di Alison Chitty) firma uno spettacolo scarno ed essenziale, caratterizzato da una recitazione asciutta e ambientato in una scena decisamente neutra, che se da un lato stride con l’idea che abbiamo di Rigoletto, opera “eccessiva” dalla emozionalità forte, ha il pregio di lasciare parlare senza inutili interferenze una musica in cui c’è già tutto il dramma. Lo spazio vuoto si anima a tratti di arcate quadrate scorrevoli che ricreano la galleria del Palazzo Ducale o di quinte mobili che abbozzano le geometrie di un borgo valorizzato dal vivace light design di Valerio Alfieri, che in parte stempera il grigiore scenico. Nel terzo atto nessun elemento architettonico, ma solo una grande porta bianca che, diversamente orientata, consente a Gilda di osservare, come attraverso una cornice, quanto avviene nella locanda prima di “tuffarsi” dentro, cercando l’affondo nel pugnale di Sparafucile.
Intense luci rosse e blu fanno emergere dal buio personaggi e moduli abitativi e le luci accendono di fucsia la corrotta corte del Duca dove donne–oggetto vengono lanciate in aria o appese alle pareti come manichini per soddisfare il piacere sessuale di cortigiani in smoking. Unico momento sopra le righe (e forse superfluo) di una regia che trova la sua cifra nella misura e che sembra cercare un punto di vista il più neutrale possibile (come del resto l’ambientazione contemporanea priva di connotazione e datazione precise).
Qualche spunto interessante c’è: convince la caratterizzazione di un Rigoletto meno buffone e difforme di quello a cui la tradizione ci ha abituati, qui un cortigiano come gli altri, ma molto più triste, con il papillon sfatto e un rossetto da clown sbavato che disegna una smorfia di dolore sul viso; come pure credibile ci appare Gilda quando la vediamo mentre dondola le gambe nel vuoto, seduta nella casa-torre illuminata di bronzei bagliori come una principessa che aspetta sognante il suo principe azzurro.
Alla Fenice si sono alternati due cast e accanto a cantanti affermati che hanno con quest’opera un rapporto privilegiato (come Roberto Frontali e Désirée Rancatore) è stato possibile apprezzare giovani interpreti.
Da seguire il baritono greco Dimitris Platanias, un Rigoletto dalla voce sonora e possente, dal registro acuto particolarmente sicuro; sarà il tempo a consentire un maggiore approfondimento del personaggio e raffinare l’accento ed il canto sulla parola. Per avvenenza e naturalezza scenica Olga Peretyatko è una Gilda assolutamente credibile, giovane e fresca, ma mai puerile; la voce di timbro gradevole è piuttosto leggera e trova nell’indugio lirico i momenti migliori; tecnicamente ben risolti passaggi e colorature.
Dario Schmunck dimostra buona musicalità e canta con gusto, ma nel ruolo del Duca di Mantova la voce troppo piccola ne limita la spregiudicata baldanza e ne esce fuori un Duca formato ridotto. Marco Spotti è uno Sparafucile particolarmente tenebroso per la voce scurissima e la presenza inquietante. Scenicamente disinvolta e senza ombra di sguaiataggine la Maddalena di Anna Malavasi. Rebeka Lohar è una Giovanna di lusso. Fra i comprimari si distingue Armando Gabba nelle vesti di Marullo, non troppo a fuoco il Monterone di Alberto Rota. Buono il Conte di Ceprano di Luca Dall’Amico, Elena Traversi è un’affascinante Contessa di Ceprano. Concludono il cast Iorio Zennaro (Matteo Borsa), Gionata Marton (un usciere) ed Emanuela Conti (un paggio della duchessa).
Punta di eccellenza l’esecuzione musicale affidata alla bacchetta di Myung –Whun Chung che, dopo un’avvincente Traviata, fa di nuovo “cantare” l’orchestra veneziana conferendo pregnanza drammatica ad ogni singola nota. La direzione è caratterizzata da un’estrema mobilità del ritmo e dei pesi sonori che traducono con grande sensibilità la varietà di sentimenti che agitano il dramma. Una nota di merito all’ottima orchestra (superbo il fremente accompagnamento a “Cortigiani” violento, energico, doloroso, ma anche dolcissimo, in perfetto equilibrio fra cura dello strumentale e sostegno alla voce). Eccellente anche il Coro, particolarmente duttile e compatto, preparato da Claudio Marino Moretti .
Buon successo di pubblico con meritati applausi al direttore.