Lirica
RIGOLETTO

RIGOLETTO A TRIESTE

RIGOLETTO A TRIESTE

In tempi tanto procellosi per la cultura - e per di più economicamente avari per tutti - è meglio stare sul sicuro, si saranno detti ai piani alti del Verdi di Trieste. Quindi per questo 'Rigoletto' marzolino, titolo sicuramente di cassetta, è stato richiamato in servizio un allestimento presentato al pubblico giuliano nel 2006, puntando quindi più sulla bravura dei nomi messi in locandina che sulla novità dello spettacolo. Le due compagnie di canto impegnate, entrambe prevalentemente di giovani, facevano perno sul piglio sicuro di Corrado Rovaris: come sua abitudine, il direttore bergamasco ha consegnato una concertazione salda e vigorosa, molto attenta alle esigenze musicali ma non per questo avara di sensibilità nel raccontare sentimenti ed atmosfere. Sempre variata nella dinamica e ricca di colore, la sua lettura del dramma verdiano appariva intrisa di forte teatralità; e molto pathos in particolare è stato speso da Rovaris nel tenebroso duetto tra Rigoletto e Sparafucile, vero cardine della vicenda, nel tempestoso confronto del buffone con i cortigiani all'atto secondo, e infine nel tetro quartetto in riva al Mincio. Non poco in effetti ha contato, in questa sua esplorazione, la efficiente compagine orchestrale triestina, ed il supporto del bravo coro maschile preparato da Paolo Vero.
Alla 'prima' cui abbiamo assistito era allineato il primo cast, che vedeva il debutto in scena del Rigoletto di Luca Salsi; un ruolo decisamente importante, questo, da lui affrontato in precedenza solo in forma di concerto nella sua Parma. E' andata come era lecito aspettarsi, cioè più che bene, visto l'andamento tutto in salita della carriera di questo ancor giovane interprete che sta inglobando progressivamente nel suo repertorio, con esiti sempre positivi, molti personaggi del catalogo verdiano.  La voce è perfetta per il ruolo del tristo buffone, scura e vellutata nel fondo ma pronta e facile alle salite, il colore sempre giusto, l'attenzione alla parola scenica ragguardevole, la penetrazione psicologica ancora da portare a compiuta perfezione, ma col grande personaggio che sta lì a portata di mano. Si sa, questo ruolo è probabilmente il più arduo e complesso dell'intero repertorio verdiano, ma c'è già la certezza che in futuro possa divenire fonte di massime soddisfazioni per il baritono di San Secondo. E se qualcuno non ha gradito l'omissione della "tradizionale" puntatura al sol in «Pari siamo», avvertendo magari  un senso di vuoto, ricordiamo che per noi è giusto sia così: quell'acuto si deve - come spesso capita - ad una discutibile tradizione, non di certo alla accorta penna di Verdi.
Grandi soddisfazioni al pubblico triestino ha donato anche la voce calda e signorile di Francesco Meli, che con la sua bella potenza ha conferito massimo spessore alla figura del Duca di Mantova, saturando letteralmente la non piccola sala triestina. Le sue doti sono quelle ben note: un timbro solare e limpido, la musicalità spontanea, il fraseggio naturale e la dizione chiarissima, la tecnica ragguardevole che permette facili escursioni agli acuti e lo scioglimento di quei passaggi difficili che Verdi dissemina con aristocratica nonchalance nella partitura. Vedi il duetto con Gilda, dipanato con legati senza macchia, e il difficile esordio di «Parmi veder le lagrime» risolto con massima eleganza. Deliziose ed inappuntabili poi nel terzo atto la canzone «Un dì, si ben rammentomi», ironica e beffarda, e la successiva, galante invocazione alla «Bella figlia dell'amore». Qualche perplessità ha suscitato invece la prestazione di Julia Novikova, nota a molti per aver partecipato al farraginoso film «Rigoletto in Mantova» diretto da Zubin Mehta, con Placido Domingo e la regia di Marco Bellocchio (greve esperimento di inutile marchandesing televisivo). Psicologicamente, la giovane e bella soprano russa si avverte ben calata nella parte, resa con convinzione pur rientrando tra quelle Gilda vocalmente un tantino bamboleggianti, che a me non piacciono molto. E' la credibilità umana che mi pare manchi al suo personaggio: a parte l'intonazione non sempre adamantina, insomma, è un po' tutto l'impianto psicologico della figura adolescenziale di Gilda, ma anche il suo spessore musicale che non prendono completamente lo spettatore. Come è apparso evidente in un «Caro nome» reso assai correttamente, con tutti i suoi abbellimenti ben eseguiti, ma scivolato via senza saper destare vere emozioni. Il basso russo Michail Ryssov ha affrontato e risolto con efficienza - e con un'indubbia eleganza vocale - il ruolo di Sparafucile, conferendogli la giusta tenebrosità ma anche un felice guizzo di soldatesca ironia, senza spendersi in inutili truculenze; esemplare  il mezzosoprano Francesca Franci nelle seducenti vesti di Maddalena; inappuntabile anche l'altro basso, Nicolò Ceriani, nella impegnativa parte di Monterone. Bene nel complesso gli altri interpreti, che citiamo brevemente: Annika Kaschenz (Giovanna), Angelo Nardinocchi (Marullo), Mario Bolognesi (Borsa), Giuliano Pelizon e Marta Calcaterra (il Conte e la Contessa di Ceprano), Loredana Pellizzari (il paggio) e infine Ivo Federico (l'usciere). Ricordiamo che la seconda compagnia allineava il Rigoletto di David Cecconi (già presente in alcune recite triestine del 2006), la Gilda di Paola Cigna, il Duca di Armando Kllongjeri, la Maddalena di Antonella Colaianni.
La regia di Michele Mirabella, che ha sostituito quella posta un tempo nelle mani di Renzo Giaccheri, era nel complesso poco avvertibile: letto il libretto, il conduttore televisivo di 'Elisir' ha semplicemente provveduto alle necessità di scena, senza andare alla ricerca di sperimentazioni e senza inventarsi nulla di nuovo. Non capisco poi le regioni che hanno spinto a chiamare un 'grande' nome (quanto effettivamente grande, sarebbe poi tutto da discutere) per riprendere uno spettacolo precedentemente già formato. Bastava chiamare un qualunque bravo assistente di regia,  e il risultato sarebbe stato lo stesso (o magari migliore, chissà!). Le scenografie di Lorenzo Ghiglia hanno un'impronta molto classica, consistendo in una serie di sipari che sarebbero andati bene anche cento anni fa; nondimeno, assolvono assai dignitosamente alla loro funzione, descrivendo efficacemente il susseguirsi degli ambienti: molto d'effetto in particolare la prima scena, con la corte gonzaghesca dispiegata davanti allo spettatore. Peccato solo che le loro sostituzioni richiedano due intervalli troppo lunghi - ogni volta una mezz'oretta, o poco meno - per il cambio scena, fatto che annoia oltre misura lo spettatore costretto a snervanti attese, ma soprattutto interrompe alquanto il flusso narrativo. Anche i costumi scelti e curati da Chiara Barichello appaiono di taglio decisamente tradizionale, ma nondimeno per la loro pertinenza e l'accuratezza sortivano il giusto effetto in scena. Sala curiosamente non del tutto piena alla elegante 'prima', pur in presenza di un titolo così popolare. Molti palchi vuoti, in particolare, e qualche poltrona non occupata. Mali di stagione, oppure snobismo? Comunque, lunghi e calorosi applausi sono stati tributati dal pubblico presente a tutti gli interpreti, indirizzati soprattutto a Luca Salsi, Francesco Meli e Corrado Rovaris. 

Visto il
al Verdi di Trieste (TS)