Lirica
RIGOLETTO

Un Duca dalla doppia vita

Un Duca dalla doppia vita

Le trame di certe opere paiono un invito a nozze per i registi, pronti ad escogitare per loro sempre nuove drammaturgie, peraltro non sempre necessarie e raramente azzeccate. Nel recentissimo Rigoletto di Bologna, Alessio Pizzech ritraeva Gilda come una bambola infiocchettata, gelosamente e morbosamente custodita dal padre tra altri simili pupazzi in un enorme armadio; e qui con una logica coerente ancora ci siamo. Jean-Luis Grinda attribuisce invece in questo suo Rigoletto proveniente dall'Opéra di Montecarlo, e designato ad inaugurare la Stagione 2016/2017 del Teatro Verdi di Trieste,  addirittura una specie di doppia vita al Duca di Mantova. Al levar di sipario ce lo presenta infatti dapprima in veste di padre amorevole, che coccola i suoi due pargoletti pronti per andare a letto; cosa che, tra l'altro, farebbe presumere sia già accasato. Ma subito dopo, eccolo inserito in una ben diversa situazione scenica, visivamente giocata su di un duplice registro: a sinistra dello spettatore un salotto di nobiltà ben vestita, che conversa composta ed impettita; a destra, un compiacente bordello dove è in corso un'orgia sguaiata, e dove lo troviamo a sollazzarsi tra prostitute imbellettate, e circondato da cortigiani in maschera e mutande. E' questo il momento più basso d'uno spettacolo ora abbastanza persuasivo, ora debole e banale, anche per i tanti dejà-vu disseminati; un momento nel quale il regista monegasco ci ammannisce la solita broda di sesso a gogò, però più laida e miserevole dell'usato. E mettiamogli in conto, visto che ci siamo, pure la bruttezza d'una Maddalena che nel finale sembra una mondina in libera uscita, più interessata a fumarsi una sigaretta che a farsi sedurre dal Duca. Con i suoi costumi, Rudy Sabounghi trasporta gli eventi – anche qui, sai che originalità – più o meno verso metà Ottocento, tanto che a tratti pareva d'assistere alla Traviata; con le sue scelte scenografiche, consegna per i primi due atti uno spazio rarefatto rinchiuso tra alti pannelli lignei, in cui gli ambienti di corte sono evidenziati da un enorme lampadario di cristallo e da alcuni arredi, mentre scollacciati nudi femminili rivestono le stanze del piacere; la magione di Rigoletto è resa invece tramite un grande quadrilatero di pietra, una specie di casamatta che potrebbe suggerire l'idea d'un fortilizio a difesa della virtù di Gilda. Per il terzo atto, una trovata un tantino strampalata: un trasparente casotto di canne palustri, adagiato sulle acque del Mincio. Va bene che il Duca deve dormire all'aria aperta, ma in un capanno da caccia sembra troppo. Per inciso, dell'entourage abituale di Grinda fanno parte anche Laurent Castaingt, autore delle luci, e Vanessa d'Ayral de Sérignac, assistente alla regia.

In buca, insieme all'Orchestra del massimo teatro triestino sta Fabrizio Maria Carminati, latore di una lettura alquanto di routine, impersonale e non coinvolgente, dai pochi colori e con ancor meno sfumature. Una direzione dalla condotta un po' meccanica, priva di reale senso narrativo; e nella quale compaiono qui e là scelte agogiche invero non condivisibili.
La nostra recita vedeva al lavoro il secondo cast, capitanato dal buffone di Stefano Meo: baritono dalla voce solida e tornita, sostenuta da una cospicua colonna di fiato che ti prende subito, e che poi viene dispensata con generosità (e senza apparente fatica) per tutta l'opera. Una certa approssimazione dell'accento ed il modico approfondimento psicologico indeboliscono però il suo personaggio, tendendo ad uniformarne le varie sfaccettature: non c'è dosata velenosità nel festino a corte, né tenera affettuosità nel duetto con Gilda («Deh, non parlare al misero» è un momento alquanto enfatico), pure l'invocazione e l'invettiva ai cortigiani paiono sciolte con irrigidita genericità; già meglio va però con la cabaletta 'a due' «Sì, vendetta», dove Meo trova modo di sciogliere il canto con la giusta passione. Un vero peccato, perché i numeri per un Rigoletto di rango, nel suo caso, ci sarebbero tutti.

Lina Johnson – già Adele nel Fledermaus della scorsa stagione – è una Gilda un po' "in sedicesimo”: perché viene offerta da un sopranino, e non da un vero soprano, né lirico né di coloritura. La cantante svedese è infatti il tipico sopranino leggero- dicaimo una soubrette -  garbato e ben preparato per carità, ma dalla vocalità senza ampio spessore; lungi insomma da poter offrire al 100% tutto quanto necessita in un ruolo come questo. Tanto che persino la tecnica di coloritura e la messa di voce (in parole povere, la capacità di crescerne l'intensità sino al fortissimo, e poi diminuirla sino al pianissimo, in una estensione significativa) possono diventare un problema: ed ecco dunque un «Caro nome» privo dei dovuti scintillii di luce, e un «Tutte le sere al tempio» dall'andamento – anche a causa del soporifero accompagnamento di Carminati – più simile ad una preghiera.

Il giovane tenore marchigiano Davide Giusti rende in maniera incisiva il cinismo rubaldo, e l'aristocratica volubilità del Duca; un po' meno l'attitudine predatoria. Questione di carattere: infatti psicologicamente mi pare gli riesca meglio il «Parmi veder le lacrime» - momento di sincero abbandono romantico –  ed il fatuo sarcasmo della ballata «Questa o quella», piuttosto che il sinistro libertinaggio di «La donna è mobile» e di «Bella figlia dell'amore». Nondimeno, riconosciamogli tutto l'innegabile merito di una vocalità vincente, fresca e ben amministrata, in cui il timbro luminoso, il facile squillo e la bellezza dei colori sono quanto mai ammalianti.

Adeguato, per presenza scenica e condotta vocale, lo Sparafucile consegnato da Giorgio Giuseppini: con lui l'atteggiamento maligno del fosco sicario rimane nei limiti del verosimile; reso cioè con ruvida e tenebrosa espressività, ma senza cadere in eccessi plateali. Senza onore né gloria la Maddalena di Antonella Colaianni; il Marullo di Fumiyuki Kato era talmente gutturale e biascicato da far desiderare che ci finisse lui nelle acque del Mincio, celato nel sacco; più che onorevole al contrario il Monterone di Frano Lufi. A completare la locandina, un primariato di alterno valore: Sharon Pierfederici (Giovanna), Motoharu Takei (Borsa), Giuliano Pelizon (Conte di Ceprano), Kaoruku Kambe (la Contessa), Simonetta Cavalli (il paggio). L'abbondanza di nomi giapponesi si spiega con la collaborazione tra il Verdi e la Sawakami Opera Foundation di Tokyo, che invia giovani artisti ad impratichirsi nel capoluogo giuliano. Corretta la prestazione del Coro del Verdi, da poco sotto la nuova guida di Francesca Tosi.

Ricordiamo che il primo cast di queste sei recite triestine – al botteghino tutte esaurite o quasi - vede la presenza nei ruoli principali di Sebastian Catana, Antonino Siragusa e Aleksandra Kubas-Kruk.

(foto Fabio Parenzan – Visual Art)

Visto il 27-11-2016
al Verdi di Trieste (TS)