Lirica
RISORGIMENTO! - IL PRIGIONIERO

La nascita di una nazione insicura di essere tale

La nascita di una nazione insicura di essere tale

Ardito, anche se in qualche modo efficace e senza dubbio non scontato, l'accostamento proposto in questi giorni al Comunale di Bologna fra Risorgimento! di Lorenzo Ferrero su libretto di Dario Olivieri, opera composta in occasione dei 150 anni di vita dell'Italia unita, e Il prigioniero di Luigi Dallapiccola, la cui prima rappresentazione risale al 1950: un incontro fra due differenti mondi musicali che finisce però per mettere maggiormente in luce la grandezza del secondo.
Partitura dall'impianto sostanzialmente tradizionale quella di Ferrero che ha il merito di recuperare, attraverso la sua innegabile orecchiabilità e piacevolezza, l'aspetto “popolare” che caratterizzò la lirica in epoca verdiana; musica dodecafonica e carica d'angoscia, invece, per un Luigi Dallapiccola che vede e ben conosce gli orrori della guerra e delle leggi razziali: punto di incontro è l'eterno anelito di libertà dell'uomo che lo spinge fino all'ultimo ad aggrapparsi alla speranza di riuscire a mutare la realtà.

Il sipario si apre e fin dal primo istante echi verdiani pervadono la sala: è l'ouverture del Nabucco ripresa e rafforzata dall'intervento del coro. Sulla scena, di Tiziano Santi con la regia di Giorgio Gallione, una sala prove ove giacciono un po' ovunque pianoforti bianchi, alcuni in mal arnese a dire il vero: siamo alla Scala, 1842. Una pessimista Giovannina Bellinzaghi (prima Fenena) non è convinta della bontà della nuova opera e se ne lamenta, suscitando i rimbrotti di un maestro sostituto profondamente fiducioso nelle abilità di Verdi. A seguire intervengono l'impresario Bartolomeo Merelli preoccupato della censura, il patrizio milanese Luigi Barbiano di Belgiojoso che è riuscito ad ottenere il visto degli Austriaci sul libretto grazie alle sue entrature ma che poi, da bravo sabaudo convinto, entra in conflitto con le idee più estremiste del maestro sostituto e, infine, una passionaria Giuseppina Strepponi (prima Abigaille) che si rifiuta di provare la Saffo di Pacini dichiarandosi verdiana convinta. Il tutto viene sottolineato da videoproiezioni che rimandano immagini risorgimentali di battaglie, di patrioti, di lettere autografe dello stesso Verdi e da una musica semplice, ma mai banale, che sottolinea la narrazione attraverso un dipanarsi armonico di arie, recitativi ed echi verdiani.

Un po' amara la conclusione che ci mostra un Verdi incanutito, a cinquant'anni dall'epoca del Nabucco, deluso per un'Italia che “poteva finalmente risorgere virtuosa, magnanima, libera e una” e che, invece, si mostra come “una nazione mai completamente sicura di essere tale”. Ed è in questo senso che si esplica il punto esclamativo del titolo che sta ad indicare come il Risorgimento sia un sogno, un anelito ancora da inseguire, da completare: un agognato risveglio delle coscienze che miri alla costituzione di una nazione e di un mondo migliori anche grazie all'arte.

Buono il cast, tutto di giovani, su cui spiccano la Bellinzaghi di Annunziata Vestri e la Strepponi di una brava Valentina Corradetti, che ha sostenuto anche lo straziante ruolo della madre ne Il prigioniero mostrando grande padronanza della voce e abilità in acuto. Con loro Alessandro Spina nel ruolo del maestro sostituto, Alessandro Luongo in quello di Bartolomeo Merelli e Leonardo Cortellazzi in quello di Luigi Barbiano di Belgiojoso.

Dopo l'intervallo nuova levata di sipario ed eccoci piombati nel bel mezzo degli orrori dell'Inquisizione, in un mondo ove una Chiesa farneticante crede di dispensare la salvezza attraverso sofferenze e torture, un mondo di follia che purtroppo si riproporrà secondo modalità diverse anche in epoche vicine all'autore. Splendida l'ambientazione in una stanza metallica profondamente claustrofobica che va poi ad aprirsi verso una spazio più vasto nel momento dell'evasione; efficaci i giochi di luce cangianti, dai toni gialli a simboleggiare il mondo esterno, alle tonalità rosse che identificano la presenza degli aguzzini. Il senso di tragico è accresciuto dalle figure inquietanti della morte e dei torturati che emergono da botole come se affiorassero dagli anditi più reconditi della prigione. Indimenticabile la figura della madre che appare dapprima in proscenio poi su un piedistallo fuoriuscito dalla parete destra, simile a certe statue della Madonna di tradizione spagnola, quasi a immagine della Vergine della Macarena, nera e velata, portata in processione a Siviglia durante la Semana Santa. Ma, per questa madre, si tratta proprio di un percorso simile a quello della Passione; ella, infatti, attraverso un'atmosfera allucinata, rivede e rivive la morte del figlio.

Di grande efficacia e qualità la prestazione di Chad Armstrong nei panni del prigioniero, un po' in difficoltà ci è parso, invece, Armaz Darashvli in quelli del Carceriere alias Grande Inquisitore. Con loro la già citata Valentina Corradetti (la madre) e Dario Di Vietri e Mattia Olivieri (sacerdoti). Molto brava anche la ballerina Francesca Zaccaria, quasi sempre presente in scena, il cui ruolo però è parso poco chiaro e un po' superfluo.

Buoni l'orchestra, il coro del Comunale di Bologna e la direzione dal gesto sempre netto e deciso del maestro Michele Mariotti.

Un vero peccato che il teatro avesse molti posti vuoti, anche se il pubblico al termine si è prodotto in una lunga serie di applausi.

Visto il
al Comunale - Sala Bibiena di Bologna (BO)