Lirica
ROBERTO DEVEREUX

ANATOMIA DI UNA SOLITUDINE

ANATOMIA DI UNA SOLITUDINE

Roberto Devereux non è un'opera in cui il sentimento amoroso è trattato nelle sottospecie tipicamente romantiche di amore infelice e amore-morte. Dei numerosi melodrammi di Donizetti ispirati alla figura di Elisabetta I d'Inghilterra, questo è il più riuscito (e non solo per il conciso ed efficace libretto di Salvatore Cammarano); testo e musica indagano varie declinazioni dell'amore: Elisabetta ama Roberto e non ne è riamata (vivendo il contrasto lacerante tra vita privata e ruolo pubblico), Roberto ama Sara ed è corrisposto, Sara ama Roberto ma è sposata col duca di Nottingham, il quale vive il rapporto coniugale con una possessività che prescinde dal sentimento ma si dimostra capace di voler bene all'amico conte di Essex prima dell'agnizione.

Invero in questa edizione memorabile (debuttò a Roma nel 1988) maggiore accento viene posto sulla solitudine di Elisabetta, che la conduce ad una sorta di pazzia. La regina è un personaggio che il compositore tratteggia con irripetuta maestria, al punto da essere uno dei caratteri più riusciti dell'epoca pre-verdiana. Il regista Joseph Franconi Lee, riprendendo lo spettacolo di Alberto Fassini, analizza nel dettaglio tutti i moti dell'animo di Elisabetta e i personaggi altri sono utili in particolare per giustificare e concretizzare le svolte nell'animo della regina. Tutta la rappresentazione appare quindi come l'analisi, lucida e implacabile, di una solitudine che conduce alla disperazione e all'annullamento (in questo caso anche all'abdicazione).
Sin da subito Elisabetta appare agitata, nervosa; si muove con fare ferino, di belva in gabbia: il contesto ufficiale in cui si trova a vivere non le consente nessuna emozione in pubblico, tanto da soffocare nel nulla anche la vita privata. La sanguinarietà di Elisabetta, che la rende sì distante dagli altri, è evidente dallo straordinario trucco (bravissimi i dipendenti del teatro) che rende irriconoscibile la bella Carmela Remigio: una maschera cerea di trucco sul volto della regina a rendere una pelle pallida e poco umana, come nei dipinti medioevali, quasi non rendendo leggibili le emozioni su quel volto. I fatti spingono la sovrana nei meandri di una follia sempre più evidente, fino al terzo atto: il suo apparire il abito da camera e poi il togliersi la cuffia rivelando i radi capelli bianchi sul cranio sono l'acmè dell'opera, seguiti dall'indossare di nuovo un pesante abito ufficiale (stavolta nero, luttuoso, come il manto che copre il trono). Invero gli abiti monumentali e rigidi di Elisabetta rendono bene l'idea della sovrastruttura sociale e regale che nasconde e soffoca l'anima e parimenti i sentimenti. E le ultime battute del coro da fuori scena suonano proprio come voci di fantasmi, voci di presenze estranee che risuonano ossessivamente nella mente della povera, sola Elisabetta.

Le scene e i costumi di David Walker, rigorosamente filologici, sono di una bellezza sorprendente, da lasciare tutti con il respiro a metà: un allestimento così sontuoso va giustamente riproposto ogni giro di anni, sarebbe un peccato lasciarlo nei depositi. La scenografia riprende gli ambienti indicati dal libretto con fondali e mobilio ricostruiti nei minimi particolari, insieme a tendaggi in velluto damascato che impreziosiscono il tutto. I costumi, in particolare: le stoffe, i dettagli sartoriali, i gioielli, le parrucche, tutto contribuisce a rendere un'idea preziosa e raffinata del periodo elisabettiano, al punto da divenire i costumi opere da museo, tale è la bellezza e la perfezione. Adeguate le luci di Agostino Angelini: da brivido nel primo atto, quando Elisabetta, nel duetto con Devereux, spalanca una porta (lui le ha detto che non la ama) e una luce fredda di taglio si riversa nella scena cambiando radicalmente le prospettive e la realtà.

Ma scene e costumi, pur eccezionali, da soli non bastano per un'opera come Roberto Devereux, giocata sulle voci: è necessario un cast perfetto come questo. A cominciare dalla vera protagonista, Elisabetta, una Carmela Remigio in stato di grazia per vocalità e capacità attoriali, impressionante per mimesi con il personaggio e crescita nel corso degli atti, minata da una solitudine insanabile che la trasfigura, anche fisicamente e nella gestualità. Non da meno Massimiliano Pisapia nel ruolo del titolo, che raggiunge il massimo nell'assolo in prigione (ma in tutta la recita egli è sempre assai espressivo ed ha voce limpida ed espressivissima: perfetta). Ottimo il duca di Nottingham di Alberto Gazale, soprattutto nel cambiamento di intonazione dopo l'agnizione, dalla calda cordialità amichevole alla rabbia per il tradimento doppio della moglie e dell'amico. Ottima Sonia Ganassi, una Sara interiorizzata e struggente, affrontata con la solita sicurezza in ogni registro e una voce pulitissima. Nei ruoli di contorno bene Ezio Maria Tisi (Gualtiero), meno convincente Bruno Lazzaretti (Cecil). Con loro Giuseppe Auletta (un paggio) e Massimo Mondelli (un familiare di Nottingham). Poco preciso negli attacchi il coro, preparato da Gea Garatti Ansini.

Un cast così perfetto sembra ancor più perfetto nelle mani di Bruno Campanella, specialista nel repertorio, capace di trarre il massimo dall'orchestra e di sostenere i cantanti nel miglior modo possibile. I tempi sono scanditi con esattezza, nessuna sbavatura dai settori orchestrali, suono avvolgente e bilanciato. Davvero una recita da ricordare.

Molto pubblico a teatro, soprattutto di amanti del belcanto. Scroscianti applausi sia durante la rappresentazione che alla fine.

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