Una fila sì, una no. Una poltrona sì, una no. Restano, in questa sistemazione, ben pochi posti disponibili nella platea del Teatro La Fenice – ad occhio, un quarto del totale - ma almeno con questo Roberto Devereux il pubblico può riappropriarsi d'uno spazio negatogli sino all'altro ieri.
Assente da tempo immemore (quasi cinquant'anni!) dalle scene veneziane, questo straordinario titolo della “Trilogia Tudor” donizettiana - il terzo, dopo Anna Bolena e Maria Stuarda - lo ritroviamo purtroppo in stringata forma semi-scenica, avendo in vista le solite nervature navali di Massimo Cecchetto.
Possiamo però contare sulla rigorosa regia di Alfonso Antoniozzi: ligia ai distanziamenti, ovviamente, ma non per questo priva di scorrevolezza e di buona teatralità. Sennonché in tal modo ci siamo persi il ricco spettacolo che curò a Genova (2016) e Parma (2018), e che qui doveva arrivare tale e quale, frutto di coproduzione. Compresi i fastosi costumi di Gianluca Falaschi, ora sostituiti da abiti anonimi: in nero il coro, moderne giacche per i maschietti, lunghe eleganti vesti per le due primedonne.
Focus sull'esecuzione strumentale
L'attenzione ricade maggiormente sulla musica, dunque. Difficile capire perché Roberto Frizza riprenda la brutta, affastellata ouverture che Donizetti scrisse per le recite parigine del 1838, con tanto di citazione dell'inno nazionale inglese (posteriore di due secoli all'epoca elisabettiana), ma in compenso ci evita deprecabili tagli e concede molte riprese delle cabalette. In più, consegna una concertazione assai equilibrata, e dall'andamento spedito; attenta al dosaggio dei colori ed alle rifiniture strumentali – prendi l'avvincente preludio alla scena del carcere – e ben articolata nelle dinamiche. Peccato che il Coro feniceo appaia poco concentrato, e trasvoli su pagine influenti nel bilancio generale.
Nel belcanto, contano le voci
Gran parte, quella di Elisabetta! Avendo in mente quella della Gencer, della Sills, della Caballé, con Roberta Mantegna si soffre un po'. Perché questa figura squisitamente belcantistica, che nella scrittura richiede limpida agilità negli acuti ma pure corposa pienezza nel registro grave - due punti di forza della Ronzi de' Begnis che la creò nel 1837, grandissima Donn'Anna e superba Norma – non trova piena corrispondenza nella personalità della cantante palermitana. La quale fraseggia con molta cura, si impegna a fondo ed è interprete espressiva, ma i sovracuti scritti dal Bergamasco le riescono ostici, e nelle linee basse del pentagramma la voce perde morbidezza.
Curiosamente, anche Enea Scala sconta il dover l'affrontare un personaggio – quello di Roberto - dalla tessitura più bassa di quella di un Leicester, di un Edgardo, di un Fernando, ruoli a lui più consoni. Però la prestazione non ne soffre: mette in campo una sobria virilità, e risolve a dovere il nobile personaggio; gli acuti sono di tutto rispetto, il fraseggio ben articolato, e nella tetra scena del carcere, svolta con sobria drammaticità, riscontriamo tutta quella rassegnata soavità che il momento richiede.
Non tutto si comprende, malauguratamente, di quanto pronuncia la Sara del Lilly Jørstad, mezzosoprano russo-norvegese dal timbro mezzosopranile attraente, e dalla linea di canto ben amministrata benché un tantino corta in alto. Nondimeno, in scena sa definire un sempre più forte carattere al suo personaggio, affrontando i duetti con amante e marito senza abbassare mai il capo.
Quanto a Alessandro Luongo, ci offre un Nottingham di lusso, eloquente ed incisivo, con una voce baritonale prodiga e corposa, di bel metallo brunito, dalla cospicua colonna di fiato. Nelle parti secondarie incontriamo Enrico Iviglia (Lord Cecil), Luca Dall'Amico (Gualtiero), Emanuele Pedrini (un paggio).