Lirica
ROMéO ET JULIETTE

Tutto dentro un disco

Tutto dentro un disco
La patria della shakespeariana Giulietta ha rappresentato al teatro Filarmonico uno dei capolavori del francese Charles Gounod, Roméo et Juliette, su libretto di Barbier e Carré, coproduzione tra il teatro veronese, la Fenice di Venezia e il Verdi di Trieste. In scena la versione dell’opera risalente al 1888, quella predisposta per l’Opéra di Parigi e quindi con i recitativi. Nonostante l’immediato successo di pubblico da cui fu gratificata e l’impegno di fedeltà a Shakespeare mantenuto dai due librettisti, l’opera di Gounod nacque gracile. La vena del compositore per almeno tre atti non sembra andare oltre una convenzionalità forse elegante ma anche fragile, carente di autentica creatività e di un sincero sentimento drammatico. La temperatura emotiva si alza nel IV e nel V atto, in corrispondenza dei momenti forti del dramma. Qui Gounod, che pure non viveva con distacco ma anzi con autentica sofferenza la fatica della creazione artistica, abbandona la sua apparente freddezza per donarci qualche momento musicalmente più intenso e vibrante. In ogni caso la musica dell’artista francese rimane romanticamente trascinante nella maggior parte dell’opera. La regia dello spettacolo è stata affidata al trentenne veneziano Damiano Michieletto, che ha già dato prova di una creatività gratificata dal riconoscimento del premio Abbiati 2008. L’idea è quella di trasporre la vicenda in un sabato qualunque, in una discoteca qualunque con ragazzi giovanissimi, un po’ punk, un po’ rock e un po’ per bene che si divertono. L’incontro casuale dei protagonisti nasce proprio in quest’ambito, ma Roméo non fa parte di questa cerchia, è un teppista col suo gruppo, un giovane di oggi che cerca di boicottare l’evento che vede protagonista la gang dei Capuleti. Lo scontro odierno è questo, una guerra tra bande rivali, per territorio e potere. Michieletto ha scelto la strada di un’attualizzazione senza freni, che non teme gli effetti estremi ed esasperati. L’idea non è nuova, dal momento che, per restare solo al teatro in musica, già l’aveva adottata Leonard Bernstein, che, nel suo West Side Story, aveva ambientato la storia di Giulietta e Romeo fra le strade di New York. Tuttavia non vi è dubbio che l’idea innovatrice e visionaria di Michieletto sia più adatta a un musical che a un’opera lirica, benché si denoti che dietro a questa sua bizzarria c’è un’idea registica molto raffinata. Con l'apporto decisivo dello scenografo Paolo Fantin, il regista racconta tutta la vicenda secondo un immaginario che sottolinea la centralità della musica per le nuove generazioni: in scena campeggia un enorme giradischi, minuziosamente ricostruito, di volta in volta palazzo, piazza, camera da letto, sepoltura. Il piatto gira, risolvendo come in una sfilata di figurine le scene di massa, tutte coloratissime; il balcone di Giulietta è il braccio di questo giradischi, il letto dei due giovani amanti l'accogliente cuffia ad esso collegata. A indicare le differenze fra i due gruppi antagonisti dei Capuleti e dei Montecchi ci pensa il loro abbigliamento (con i bei costumi di Carla Teti), puntiglioso nei particolari e abbastanza chiaro per lo spettatore. Nonostante l’idea brillante, ci sembra che la traumatica attualizzazione dell’opera di Gounod perda notevolmente il suo fascino e la sua romantica poesia. Il tutto sa troppo di musical americano e di baraonda. La direzione dell’Orchestra dell’Arena di Verona era affidata a Carlo Montanaro, che ha dato una lettura di Gounod come fosse un autore del romanticismo italiano, non evitando enfasi e ridondanze anche dove sarebbe stata preferibile un’ulteriore ricerca sulla personalità propria di questo spartito. In scena una compagnia molto giovane, adatta all’idea scenica di Michieletto e con buone voci. Il Roméo del giovanissimo tenore Paolo Fanale è risultato un po’ evanescente per una voce non molto corposa, ma lucido e con ottime sfumature e preciso nel fraseggio e negli acuti. Juliette è stata interpretata da Maria Alejandres, dalla linea di canto incisiva ma piuttosto aspra nella zona alta della tessitura, a volte perfino tagliente e lontana dalle morbidezze sentimentali (comunque l’aria Je veux vivre è stata eseguita in modo ineccepibile e accolta con molto calore). Ottima prova di Elena Belfiore nel ruolo del paggio Stéphano, limpida e sicura; buone le voci di Anicio Zorzi Giustiniani (Tybalt) e di Alessandro Spina (Frère Laurent); Luca Dall’Amico è un drammatico Capulet, molto a suo agio nel finale; abbastanza sfocato il Mercuzio del baritono Massimiliano Gagliardo; apprezzabili Dario Giorgelè (Grégorio) e Floriana Sovilla (Gertrude). Il coro dell’Arena di Verona, diretto da Giovanni Andreoli, molto impegnato nel corso dell’opera, è sempre stato all’altezza. Poco pubblico per un’opera rara e raffinata; applausi per i cantanti e dissensi per la regia. Mirko Bertolini
Visto il
al Filarmonico di Verona (VR)