Difficile raccontare gli eventi della Storia se questa è ancora compromessa col presente. Quando nel 1990 Fabrizio De André cantò di «Renato Curcio il carbonaro», certa critica giudiziosa trovò intollerabile la sovrapposizione, ancorché suggestiva e poetica, tra il fondatore delle Brigate Rosse e Silvio Pellico; ed ancora oggi, tutte le volte che si parla di brigatismo sembra indispensabile premettere a qualunque riflessione un’adeguata formula di distanziamento, per marcare l’appartenenza di chi parla alla cultura di quelle istituzioni che sconfissero la militanza armata.
Ma l’atteggiamento che sovrintende a questo rituale espressivo, se da un lato fortifica – almeno linguisticamente – la comunità "democratica", dall’altro rallenta la comprensione di un fenomeno sociale che coinvolse alcune migliaia di persone e che segnò – per approvazione o per dissenso – l’identità politica di una generazione. L’impossibilità, questo è il punto, di presentarsi "neutrali" alla lettura storica di vicende ancora troppo presenti nella coscienza collettiva rischia di trasformare in elegia di parte ogni ricostruzione narrativa di quegli eventi; Antonino Varvarà ha la padronanza consapevole di questo limite e sposta dunque lo sguardo dalla Storia alla memoria.
Gli anni di piombo vengono allora attraversati come pura traccia emotiva di una donna che fu protagonista della lotta armata – una qualsiasi o tutte; questo, in una prospettiva astorica, è poco importante. Una donna approdata ormai ad un’altra identità, divenuta madre, che si misura con la propria vicenda umana attraverso il racconto di sé alla figlia – silenzioso doppio sulla scena fino al quadro finale, in cui prende voce per appropriarsi gli ideali "romantici" che la madre stessa, con occhio adulto, riconosce ormai come illusori. Il testo risuona densissimo ed appassionato, pulsante di tutta la forza contraddittoria di chi sceglie liberamente un destino tragico. Sulla scena Francesca D’Este, intensa e comunicativa, interpreta con misura esatta la dolente lacerazione tra passato e presente, che l’aspro disegno delle luci di scena fa risaltare in modo spietato. Alla scabra nudità del palcoscenico non si contrappone un testo di pura narrazione; la protagonista si muove nello spazio come in un paesaggio emotivo interiore, polarizzato dalla sola presenza della figlia – la giovane Lucia Mesina – cui è rivolta la confessione.
L’esito drammaturgico è di notevole eloquenza poetica. Grande tensione emotiva in sala; il pubblico segue a fiato sospeso e alla fine si libera in un applauso prolungato e commosso.
Auditorium Bellini - Napoli, 2 febbraio 2007