Apoteosi dell'erotismo, trionfo dell'esotismo, con dentro un pizzico di kitsch: la ”Salome” di Richard Strauss è un'affascinante mix di tutte queste cose. In dosi bilanciatissime, però, come in una grande salsa francese: ”E' stata la necessità ad ispirarmi un'autentica armonia che assume tinte inconsuete, sopratutto nella stranezza di certe cadenze simili a sete cangianti”, puntualizzava Strauss.
Invero, la sua Salome è un magma musicale ribollente e apparentemente senza fine, pervaso da un sinfonismo dal torrido respiro, dove aspre ma superficiali dissonanze simili ad increspature d'onda, subito svaniscono nel mare magnum di tonalissime armonie. E dall'orchestrazione lussureggiante - persino ”un po' sovrabbondante nella strumentazione”, ammetteva lui stesso - con una immensa ricchezza di spunti tematici e di ardite polifonie. Tutte meraviglie che ritroveremo presto in Elektra. Che poi il compositore monacense sia un genio assoluto od un sublime artigiano, è questione di lana caprina.
Un graditissimo ritorno
Apparsa nel Teatro Filarmonico di Verona un'unica volta nel 2000, ”Salome” ritorna in nuova veste a siglare la stagione 2017/2018. Presiede dal podio dell'orchestra scaligera in pompa magna – l'organico, si sa, è imponente, riempe anche le barcacce - il giovane direttore tedesco Michael Balke, il quale riesce a dominare il dedalo timbrico ed armonico della partitura straussiana, scorrendola con lucidità, impeto passionale e forte pulsione ritmica. Unica menda: il cedere, di tanto in tanto, a debordanti enfasi sonore.
Salome discende dalla Brünnhilde wagneriana: stessa gamma, stesso inesausto sforzo vocale, a sostenere la scena per un'ora di fila. Fatica improba, che in Nadja Michael – Salome dalla ferina lascivia e di morbosa aggressività; ma quanto a filati, pianissimi, luminosità e sospiri prossima allo zero - diviene verso la fine un percorso in salita, perché lo strumento non è più quello di un tempo. Innegabile tuttavia la fortissima valenza scenica, a guadagnarle l'applauso pieno del pubblico.
Pure la tessitura baritonale di Jochanaan è impervia: magniloquente, e spinta a sfiorare quella tenorile. La padroneggia debitamente Fredrick Zetterström, sebbene con qualche piccola forzatura, e lasciando a mezzo il magnetismo del profetica biblico. Kor-Jan Dusseljee tratteggia con grande abilità lascivia e nevrosi di Erode; Anna Maria Chiuri offre magnofico risalto – nel canto e nella presenza - alla figura dell'arrogante Erodiade; Enrico Casari raffigura bene i tormenti di Narraboth.
La folla dell'efficiente comprimariato vede Nicola Pamio, Pietro Picone, Giovanni Maria Palmia, Paolo Antognetti, Oliver Pürckhauer (i Giudei), Romano Dal Zovo e Stefano Consolini (i Nazareni), Costantino Finucci e Gianfranco Montresor (i due soldati), Belén Elvira (il paggio), Cristiano Olivieri (lo schiavo), Alessandro Abis (l'uomo della Cappadocia).
Nessuna scivolata nel kitsch
Il pericolo di cadere nel kitsch è sventato in partenza dalle lineari, intense e rigorose soluzioni registiche di Marina Bianchi. Di fronte uno spazio allo stesso imponente e rarefatto, con tre immense colonne a destra, il palazzo dietro, a sinistra una scalea che cela la prigione di Jochanaan – qui c'è la mano di Michele Olcese - lasciando sul fondo le videoproiezioni di Matilde Sambo. Notevoli i costumi di Marina Bianchi, dai tratti vagamente liberty nei protagonisti ma per il resto scevri da falsi etnografismi: i giudei come ebrei ortodossi d'oggidì, i soldati con odierne divise. E le bende che imprigionano Salome nella Danza dei sette veli insinuano un asservimento sessuale nei confronti del patrigno. Buon contributo allo spettacolo sono i sobri movimenti mimici di Riccardo Meneghini e le luci di Paolo Mazzon.
Spettacolo: ”Salome”
Visto al Teatro Filarmonico di Verona.