Lirica
SALOME

Femmine fatali

Femmine fatali

Per le vie imperscrutabili delle programmazioni teatrali, che seguono sia logiche artistiche quanto imperativi bisogni di cassa, capita che a distanza di appena un mese un teatro importante - cioè il Verdi di Trieste - metta in cartellone due opere legate alle figure alle due 'femmine fatali' per eccellenza della Bibbia. Ponendo così a diretto confronto il Gounod di "Samson et Dalila", e lo Strauss di "Salome". Due compositori entrambi quarantenni - o giù di lì - quando misero mano alle rispettive partiture: il francese a far aleggiare ancora una volta (anche se la struttura adottata non è proprio quella) lo spirito del sontuoso grand-opéra tardo romantico, il bavarese occupato ad aprire il XX° secolo da par suo, immettendovi l'alito nuovo di un lavoro originale, che anticipa non pochi elementi della corrente espressionistica del decennio successivo. In comune alle due opere, sta quell'attraente e pruriginoso mescolarsi di sensualità e misticismo, di profano e religioso, insomma quello stesso eccitante miscuglio che aveva determinato, nel trentennio che separa le due partiture, anche la fortuna dell' "Hèrodiade" e della "Thaïs" di Jules Massenet. 
Come si sa, la storia della bellissima, crudele fanciulla che per capriccio ottiene dal patrigno Erode Antipa la testa di Giovanni il Battista, vendicando così il rifiuto delle sue profferte amorose, ci viene consegnata dai Vangeli di Matteo e Marco; i quali peraltro omettono il nome della perversa figlia di Erodiade, Salòme, tramandatoci invece dal grande storico ebreo Giuseppe Flavio. Il libretto della scrittrice Hedwig Lachmann ricalca fedelmente il dramma di Oscar Wilde, pubblicato nel 1893 e creato appositamente per la grande Sarah Bernhardt, limitandosi ad adattare il testo originale francese in versi ad una piana prosa in  tedesco. Richard Strauss adottò proprio questa versione di "Salomè" - con qualche limitato taglio - per sovrapporvi la sua musica, in un lavoro di composizione perdurato dal febbraio 1902 al giugno 1905. La 'prima' del 9 dicembre 1905 alla Königliches Operhaus di Dresda provocò un successo inaspettato e assolutamente travolgente, tale da compensare il suo autore dell'indifferenza tributata ai suoi primi infelici esperimenti teatrali ("Guntram" del 1894 e "Feuersnot" del 1901). Sancendone, in tal modo, la definitiva fama di compositore moderno e innovativo; e soprattutto, di compositore di successo, gradito al grande pubblico senza per questo - cosa da sottolineare - concedergli particolari lusinghe. E senza compiere con la tradizione quello strappo violento e rivoluzionario auspicato invece negli stessi anni da Schönberg con due testi quali "Erwartung" e il "Pierrot lunaire": il primo a Berlino, l'altro a Vienna, Stravinskij a Parigi, tutti a costruire il Novecento.
Coprodotto con il Teatro Comunale di Bologna, questo allestimento triestino mi è parso una delle migliori cose viste ultimamente e, di sicuro, il miglior allestimento tra la varie "Salome" da me viste da una decina d'anni ad oggi, per due pregi fondamentali che stanno alla base di uno spettacolo di altissimo livello. La formidabile concertazione di Stefan Anton Reck, innanzitutto, capace di trasportare una brava compagine del Teatro Verdi ad un livello ancor superiore di virtuosismo, elettrizzandone ogni componente. La cura strumentale del cinquantenne direttore tedesco appariva assolutamente esemplare, la linea musicale serrata, irrequieta, con scansioni sinuose delle frasi, ora con uno spirito incline un lirismo tormentato e ad un sofisticato decadentismo erotico (il dialogo tra Jochanaan e Salome, la Danza dei sette veli), ora perfettamente conscia degli umori pre-espressionistici affioranti qua e là dalla partitura.
Secondo pregio di base, le indovinate scelte registiche adottate da Gabriele Lavia, tutte tese ad elaborare uno spettacolo denso di grumi d'emozioni, sempre in perfetta sincronia con lo scorrere della musica, e costruito con articolata e fantasiosa semplicità. Lavia è uno che sa ottenere da tutti gli interpreti - qui verrebbe da dire: da tutti gli attori - il massimo che possono dare, seguendo con coerenza il testo ma concedendosi qualche guizzo inventivo, creando forti contrasti e smorzandoli subito, in un alternarsi di suggestioni che avvince lo spettatore. Ha trovato poi intesa perfetta con lo scenografo Alessandro Camera, al quale ha chiesto pochi, sapienti tratti visivi per una rarefatta ambientazione, ravvivata dalle luci di Daniele Naldi: una grande pedana spezzettata,  un' alta gabbia a rinserrare il Battista, una enorme lente di ingrandimento a focalizzare lo sguardo, una grande ascia bipenne sospesa. E dopo la decapitazione del profeta una immensa testa marmorea emerge sfondando la pedana, e su essa Salome canta inebriata la sua delirante passione. Cose difficili da descrivere, ma molto belle da vedere. Un plauso lo dobbiamo ovviamente anche al costumista Andrea Viotti, che ha ideato gli abiti primo '900, e al coreografo Luciano Pasini. Curiosamente, Lavia aveva promesso di non portare in scena - per carità! -  la solita, banale testa mozzata; però ci ha imposto la visione del corpo decapitato di Jochanan, appeso in giù come un salame, unico artificio di scena non proprio gradevole.
Va da sé che il lavoro di Reck e Lavia non avrebbe avuto questo felice compimento, se non ci fosse stato a loro disposizione un cast di veri cantanti-attori, come quello radunato dal Verdi di Trieste.
Certi bagliori sinistri di una ferina, malata sensualità non sanno nascondere quella istintiva infantilità, esaltata e capricciosa,  che sta alla base del personaggio di Salome. Ci voleva una voce dal timbro chiaro, una apparenza fisica da adolescente, una scioltezza di movimenti da ballerina: tutte doti che il soprano inglese Anne Williams-King ha mostrato di possedere. C'era nella sua voce poi la giusta, estenuata morbidezza all'inizio, una grande musicalità e ricchezza di sfumature; ma i bruschi scarti di registro che la parte porta con sé, hanno ahimè lasciato poco alla volta il segno, e alla fine si avvertiva palesemente una certa stanchezza. Peccato, veramente peccato.
Johannes Von Duisburg è stato un Jochanaan esemplare: poca mobilità gli era concessa, appeso nudo a due lunghissime catene, ma era la voce a recitare per lui, sfumata,  potente e tenebrosa nelle sue invettive profetiche. Matthias Wohlbrecht mi è parso un Herodes perfetto, debosciato e un po' isterico, acidulo nel suo chiacchierio fatto di frasi taglienti come lame. Un interprete magnifico, tanto vocalmente quanto scenicamente. Monicka Waeckerle è stata una valida Herodias, Gianluca Sorrentino un convincente Narraboth. Adeguata pure la squadra dei comprimari: Federico Lepre, Alessandro De Angelis, Davide Cicchetti, Pablo Karaman e Nicolò Ceriani (i cinque giudei), Giuliano Pelizon e Francesco Paccorini (i due nazzareni), Alessandro Svab, Federico Benetti e Dax Velenich. Il pubblico triestino - composto in prevalenza da signore decisamente agées - ha accolto con qualche diffidenza e un po' di freddezza le proposte di Lavia, mostrando d'apprezzare di più il lato musicale dello spettacolo. Ricordo che l'altro cast in locandina comprendeva Ingela Brimberg (Salome), Thomas Gazhei (Jochanaan), Rober Brubaker (Herodes), Marta Moretto (Herodias) e Michale Heim (Narraboth).

Visto il
al Verdi di Trieste (TS)