Salome apre la stagione autunnale del Maggio Musicale e dopo quella di Luc Bondy del 1994, produzione forte e lancinante di cui è ancora vivo il ricordo. Viene ora proposto sul palcoscenico fiorentino uno spettacolo ugualmente avvincente, e per certi versi scioccante, firmato da Robert Carsen, frutto di una fortunata collaborazione con i teatri di Torino e Madrid.
Salome mostra una società corrotta e Carsen gioca con questa immagine rifuggendo da un’ambientazione “orientale” e scegliendo nel nostro immaginario presente la città corrotta per eccellenza: Las Vegas, città costruita nel deserto per soddisfare una società materialista che insegue facile denaro e piacere, metafora dello splendore e della decadenza dell’Occidente contemporaneo. Il regista ambienta l’opera nel caveau di un casinò pieno di soldi (causa ed effetto di una corruzione dilagante) e luogo deputato del kitsch, come del resto la corte del tetrarca immaginata da Wilde e Strauss.
La scena disegnata da Radu Boruzescu vede un seminterrato dalle pareti d’acciaio completamente rivestite di cassette di sicurezza e una luccicante cassaforte-cisterna da cui proviene la misteriosa voce del profeta. Telecamere a circuito chiuso trasmettono su di un monitor in un collage di immagini quanto avviene ai piani superiori e, fra tavoli da gioco e roulette, vediamo Salome accoccolata su di una poltrona che, annoiata dalla vita del casinò, scende nel sotterraneo in cerca di distrazioni.
Un’adolescente vestita di nero, in fuseaux e anfibi, che contesta il milieu in cui vive: una madre e un padrino volgari e viziosi decisamente ridicoli nei loro lustrini d’oro e d’argento, cortigiane stagionate in vistosi abiti da sera (particolarmente efficaci per definire la giusta atmosfera i bei costumi di Miruna Boruzescu), camerieri seminudi travestiti da antichi egizi o romani che portano nel caveau arredi dorati che più finti non si può o impegnati a soddisfare le brame sensuali degli invitati.
In questo contesto falso e claustrofobico, dove anche la luna è una proiezione digitale, Jochanaan appare alla fanciulla come un miraggio d’amore e libertà quando le pareti d’acciaio si scostano e il profeta, bello e impossibile come un tuareg, avanza fra le dune di un deserto rosso sotto un cielo notturno.
In questa produzione il ruolo di Erodiade acquista maggiore rilievo e madre e figlia, legate da un ambiguo rapporto di amore-odio, tendono nel corso dell’opera a sovrapporsi con inediti sviluppi. Nella danza dei sette veli Salome scimmiotta la madre, di cui indossa la parrucca rossa ed il vestito di lamè, eccitando allo spasimo sette laidi vecchietti che danzeranno in sua vece uno striptease orgiastico ed integrale sotto gli occhi di un Erode-voyeur che riprende tutto con una telecamera, anche il bacio saffico che Salome stamperà sulle labbra di una turbata Erodiade. Alla fine Salome, con la testa mozzata fra le mani come fosse un pelouche, varcherà le porte d’acciaio per andare incontro a desertici orizzonti in una sorta di catarsi che l’avvicina a Isolde, mentre ad Erode, dopo che le porte del caveau si saranno ermeticamente richiuse e un senso di freddo e buio pervaderà la scena, non resterà che uccidere la moglie, la vera colpevole, e la frase ”man töte dieses Weib” rivolta ad Erodiade anziché a Salome è un coup de théatre geniale.
La regia avvincente non ha trovato analogo riscontro nella direzione musicale di Ralf Weikert, che ha offerto una direzione di buona routine, attenta a sottolineare le componenti melodiche e le raffinatezze timbriche della partitura (favorito in questo da una compagine orchestrale dal sound bellissimo), ma priva di suspence e tensione, troppo poco “novecentesca”, mai dissonante o nervosa.
La Salome di Janice Baird ha un’intensa presenza scenica e, se è troppo matura per l’adolescente inquieta immaginata da Carsen, funziona bene come alter ego di Erodiade. La voce è importante ed espressiva, ma alle prese con una tessitura impervia mostra disomogeneità di emissione e il canto di stampo wagneriano stenta a piegarsi all’insinuante fraseggio straussiano.
Perfetto l’Herode di Kim Begley, lascivo e corrotto, dalla voce solida e ben timbrata; convince pienamente anche l’Herodias di Irina Mishura, dalla voce ampia e forte presenza scenica. Mark S. Doss è un Jochanaan carismatico di sicuri mezzi vocali e la morbidezza timbrica è adatta a suggerire un miraggio d’amore. Mark Milhofer è un Narraboth sensibile; bene anche il paggio di Jennifer Holloway.
Eccellenti le parti di fianco, in particolare il primo Nazzareno di Roberto Abbondanza ed il secondo Nazzareno di Uwe Griem. Fra gli altri ricordiamo Gabriele Ribis (primo soldato), Gianluca Floris (primo ebreo), Saverio Fiore (secondo ebreo), Antonio Feltracco (terzo ebreo), Cristiano Olivieri (quarto ebreo), Carlo Di Cristoforo (quinto ebreo). Concludono adeguatamente il cast Gabriele Ribis (primo soldato), Francesco Musinu (secondo soldato), Fernando Cordeiro Opa (uno schiavo).
Alla fine tanti applausi e qualche fischio per uno spettacolo che continua a dividere ma che rimane un capolavoro di intelligenza e ironia.