Samson et Dalila mancava esattamente da cinquant’anni dall’Opera di Roma e il programma di sala riporta le locandine di precedenti edizioni, tra cui la più interessante ci pare quella bilingue italiano-inglese del gennaio 1946, quando la presenza a Roma degli americani richiedeva prezzi diversi per il pubblico e le forze alleate.
Il nuovo allestimento della Fura dels Baus (regia e impianto scenico Carlus Padrissa, costumi Chu Uroz, video Marc Molinos) è tutto in bianco e nero e utilizza proiezioni video come parte integrante del racconto, che perde i caratteri del grand-opéra per farsi vicenda intima e raccontare un inganno d’amore freddamente messo in atto.
Sul sipario l’immagine di Samson che strangola un leone di disintegra in coriandoli che volano verso l’alto all’attacco dell’ouverture. I corni ebrei dello shofah producono cubi da cui deriva una pioggia di lettere antiche che poi formano un muro di fittissime spighe di grano. Quindi un volto, una spiga gigante che ondeggia come un metronomo, un campo in fiamme.
Il coro iniziale è al buio, uniche luci quelle posizionate in fronte per leggere i testi sacri dondolando il busto avanti e indietro. Sul fondo il video rimanda i primi piani dei volti salmodianti, gli occhi cerchiati di nero, sugli zigomi i segni di lacrime nere e materiche. Abiti neri, cappe bianche bordate di nero: tra gli ebrei Samson si distingue immediatamente per la nudità del corpo tranne le braghe nere (invero indossa una tuta bianca che ne disegna la muscolatura come un fumetto) e i capelli rasta dai torciglioni lunghi fino a terra e girati intorno al collo come una sciarpa. Unici elementi scenici quattro testoni di stoffa bianca come i moai dell’isola di Pasqua. I soldati filistei indossano caschi di protezione antisommossa e calzano cigolanti coturni spaziali scortando Abimelech sopra un basamento quasi fosse una statua da venerare. Corolle giganti di fiori accompagnano l’ingresso di Dalila inguainata in un abito nero e bianco come una diva del passato, aspetto esaltato da un grande cappello costituito solo dall’anima di ferro con la sembianza di un fiore.
Le corolle di fiori giganti restano l’elemento scenografico dominante per il secondo atto, per il resto la scena è vuota e ravvivata soltanto dai video in bianco e nero, tra cui una bocca ravvicinata, quasi da incubo, che introduce il duetto durante il quale vene aggrovigliate pulsanti rosso sangue riempiono il fondale per poi ingrigire e quindi diventare lampi di numeri, lo squallido calcolo, la freddezza della ragione. Intanto quattro sinistre figure dentro parallelepipedi osservano, toccano, spiano, creando un senso di disagio. Efficace la soluzione del momento del taglio dei capelli, presentato in video.
Nel terzo atto un volto deformato si mostra con gli occhi cuciti da spille da balia: è Samson, che poi si vede alla gogna. I borghesi filistei indossano maschere di plastica trasparente che ne alterano i volti e abiti eleganti, le stole delle signore hanno decori come le apps, motivo che torna più spesso riprodotto sui costumi o proiettato nei video.
Nel baccanale esplode la violenza, i soldati prelevano quattro comparse in platea e le trascinano in palco, situazione claustrofobica e terrorifica a causa del buio rischiarato soltanto dai fasci delle torce. Le “vittime” vengono ridotte a corpi: umiliati, maltrattati, denudati, legati, appesi a ganci. Il bondage come pratica sessuale estrema e degradante ha il culmine con il costringere i sottomessi a strusciare il viso in recipienti colmi di escrementi semiliquidi.
Una ragazza viene sacrificata: appesa per i piedi, scannata, il cadavere passato fra i filistei che toccano il sangue e se lo spalmano su volto e collo come per un rito tribale collettivo.
Il crollo del tempio è simboleggiato dal crollo di due colonne realizzate sovrapponendo le corolle dei fiori: il tradimento d’amore è la causa di tutto l’orrore.
Il disgusto che si prova dalla platea, nelle intenzioni registiche, forse vorrebbe alludere al deliberato tradimento di Dalila. La donna seduce Samson illudendolo che è innamorata, in realtà ingannandolo. Quale peggiore schifezza è possibile? Nessuna, sembrano dire i Fureri. L’umiliazione del partner sessuale nel bondage traduce in fisicità l’umiliazione dell’inganno d’amore perpetrato con fredda consapevolezza per conseguire un risultato.
Il regista muove poco i protagonisti e il coro e la gestualità è improntata all'essenzialità.
Ekaterina Semenchuk è una Dalila volutamente distaccata che ha convinto per gli acuti sicuri e i centri vellutati e sensuali che completano l’aspetto seducente: la bocca rossa voluttuosamente aperta, la pelle candida come il latte, lo sguardo febbrile di eccitazione. Aleksandrs Antonenko è un eroe umanissimo; la voce è sicura, potente e ampia e ben tratteggia le sfumature del personaggio, soprattutto quel giuramento d’amore prima titubante e poi deciso che determina la svolta negli eventi.
Giusti tutti i ruoli di contorno: Mikhail Korobeinikov (Abimelech), Elchin Azizov (Gran sacerdote), Dario Russo (Vecchio ebreo con mantello con codice a barre e cintura kamikaze davvero fuori luogo), Gregory Bonfatti e Filippo Bettoschi (Primo e Secondo filisteo), Nicola Pamio (Messaggero) e il coro preparato da Roberto Gabbiani.
Charles Dutoit dirige l’orchestra con grande padronanza ed eleganza, eliminando dalla partitura l’incrostatura da grand-opéra e cogliendo le prodromi novecentesche, esaltate nel loro sottolineare i passaggi della narrazione e l’emozionalità dei protagonisti per una resa di grandissima emozione.
Se nelle scelte registiche non tutto è condivisibile, resta nello spettatore quel senso di fastidio insopportabile (un po' anche di schifo) che si prova, appunto, quando l’amore è inganno o illusione: dunque il regista e il suo team hanno colto nel segno.
Pubblico abbastanza numeroso, qualche contestazione a fine spettacolo.