Lirica
SAMSON ET DALILA

Samson e Dalila tra minimalismo ed eccessi

Samson e Dalila tra minimalismo ed eccessi

Samson et Dalila è un’opera poco rappresentata e di difficile esecuzione scenica per la sua natura composita. Inizialmente concepita come oratorio, fu poi trasformata in tragedia lirica e la genesi tormentata si ritrova nell’oscillare fra polarità di segno opposto, dove si fondono esotismo e misticismo, freddo classicismo e  sensualità incantatoria.
Samson et Dalila è marcata da un forte esotismo di atmosfera e ambientazione e risente del gusto storicistico di fine Ottocento, caratteristiche che Michal Znaniecki e Tiziano Sarti, rispettivamente regista e scenografo della produzione ora in scena a Trieste, preferiscono sottacere, ambientando l’opera in uno spazio asettico dalla datazione indefinita.

La scena è divisa in due livelli collegati da una scala metallica che marca la separazione fra gli ebrei, prigionieri in una sorta di cisterna dalle pareti rivestite di lastre di marmo, e i filistei, che si muovono nella parte superiore dove sono abbozzate le arcaiche architetture di un palazzo.
Spetta al variare delle luci di Bogumil Palewitcz  dare la giusta atmosfera, regalando tinte notturne per l’ispirato lamento bachiano degli ebrei, verdi sfumature per l’invocazione della primavera, rosso acceso per il baccanale, ma non basta.
Se lo spazio marmoreo da architettura di regime può funzionare per evocare le tragedie del popolo ebreo, risulta inadeguato per fare da cornice al grande duetto d’amore fra Samson e Dalila e la malìa incantatoria della musica viene tradita. Nel terzo atto Samson gira incatenato intorno alla macina e la scena si affolla all’inverosimile (marcando una discontinuità stilistica con la sobrietà dei  primi due atti) fino a nasconderlo. Ai lati della scena troneggiano due gabbie  in cui vengono rinchiusi gli ebrei e dall’alto ne cala una terza (generando comicità involontaria) per ingabbiare Samson come fosse un leone.
La scena si accende di fiaccole e sgargianti costumi arancioni che preludono a un baccanale sovraccarico (discutibili le coreografie convulse di Aline Nari per i filistei - marziani) che non risparmia inutili scene di stupro e fastidiose grida. La distruzione di un tempio siffatto non se la augura solo Samson, ma il rigore torna alla fine ed il crollo è solo accennato.
Gli ebrei vestiti di grigio e nero, dai  movimenti dolenti e rituali, si oppongono ai filistei, manichini senz’anima dalla gestualità meccanica. Isabelle Compte firma costumi surreali e stravaganti in un mix di arcaismo e futurismo: abiti metallici da alieni, tuniche strette in vita da cinture –gioiello, mantelli dagli smisurati baveri alzati, fantasiosi copricapo a forma di globo rivestiti di pizzo per le ballerine o tempestati di pietre preziose per Dalila.

Buona l’esecuzione musicale. L’impegnativa parte di Samson è spesso affidata a tenori “wagneriani” e Ian Storey, apprezzato Tristano, garantisce declamati incisivi e un solido registro centrale; se il personaggio funziona bene nei momenti epici, peraltro favorito da una figura imponente adatta al possente personaggio biblico, non è altrettanto vibrante sul piano passionale per un fraseggio troppo asciutto e stilisticamente lontano dalla prosodia francese. La Dalila di Elena Bocharova sfoggia voce ampia dai centri corposi e regge senza cesure le lunghe arcate di “Ah réponds à ma tendresse”, ma, penalizzata dalla regia, non riesce a sprigionare tutto il fascino e potere di seduzione del personaggio. Claudio Sgura si distingue per voce sonora e incisività di fraseggio che donano particolare rilievo e autorità al grand Prêtre de Dagon. Alessandro Spina è un Abimelech appropriato, efficace il vecchio ebreo dolente di Alessandro Svab. Concludono adeguatamente il cast Federico Lepre (un messaggero filisteo), Alessandro De Angelis (primo filisteo) e Dario Giorgelé  (secondo filisteo).

La nitida direzione di Boris Brott, particolarmente attenta all’architettura formale della partitura, ha il merito di aver conseguito il non facile equilibrio fra masse orchestrali, corali e voci soliste: una lettura che privilegia il classicismo di Saint Saens piuttosto che il colorismo sensuale ed estenuato.
Degna di nota la prova del coro preparato da Alessandro Zuppardo, che ha saputo restituire con notevole varietà di linguaggio le diversità stilistiche delle pagine corali. Una particolare menzione per il coro maschile il cui “Hymne de joie”, risultato particolarmente intimo ed intenso.

Il pubblico della prima ha espresso pieno favore a tutti gli interpreti e qualche dissenso per  regia e  coreografia.

Visto il
al Verdi di Trieste (TS)