Prosa
SCHIFOSI

Se l'obiettivo &egrave…


	Se l'obiettivo &egrave…

Se l'obiettivo è infastidire il risultato è raggiunto pienamente. Lo spettacolo Schifosi, L’orchestra vuota (liberamente ispirato dall'opera omnia di David Foster Wallace), lascia un senso di freddo disagio. Prima produzione indipendente de La Bottega Bombardini che vede insieme Rosario Sparno, attore e regista che già ha creato regie-riduzioni-rielaborazioni di testi classici, e Luca Iervolino, attore che ha lavorato da diversi anni al suo fianco, lascia nello spettatore un sottile fastidio, ma non raggiunge il partecipato ribrezzo.

Il tema è forte: scandagliare la famiglia come luogo di disamore, di odio, di violenza, di grande sofferenza fino ad arrivare ad essere luogo dell’incesto pedofilo. Ma non c’è qui alcun giudizio etico, anzi, il punto di vista proposto è quello del carnefice o meglio della vittima dell’odio e della mancanza di amore dei genitori, che crescendo, conseguentemente, diventa carnefice. Gradatamente e senza sobbalzi ci si avvicina e si accoglie lo sguardo di chi la violenza la vive e la restituisce. Un uomo, in scena, argomenta senza sentimenti, freddamente (ed è qui la bravura di Luca Iervolino), afferma il suo pensiero senza timori, senza pudori, senza limitarsi e dando anche una sorta di giustificazione. Le scene, risultato di un preciso lavoro sul testo, sono costruite in modo semplice e chiaro. Per quadri. Lo spettatore è lentamente accompagnato a capire, entrare nel modo di pensare violento del protagonista attraverso cinque capitoli, annunciati da scritte (maestria di un gesso su una lavagna-tavola rovesciata) o da voce registrata, in cui è diviso lo spettacolo. Il prologo, capitolo I: la madre, capitolo II: il padre, capitolo III: il figlio, epilogo: il pasticcino. L’attore in scena dà corpo a questi passaggi che parlano sempre con personaggi immaginati. Il prologo è una voce registrata, Lui ascolta, con cuffie moderne attaccate a un vecchio e grande registratore, la voce di una madre che risponde alla domanda del bambino sulle sue paure: un lungo elenco, tra cui quella di non essere all’altezza, di morire con l’acqua bollente. Ed è proprio così che si suiciderà questa madre, come svela Lui, in pelliccia e occhiali da sole mentre parla da un microfono–gelato, nel primo capitolo, quando ripercorre la storia materna, come se fosse ad una convention in cui discute di questa madre che non si sente all’altezza, che si odia e che lo lascia con il consiglio di imparare a essere finto.

Nel capitolo secondo protagonista è il padre. In sedia a rotelle Iervolino si trasforma, mirabilmente, nei gesti e nel volto, in un vecchio padre disabile e morente. Il padre si confessa a un prete, in un lungo monologo esprime gelosie e odio verso il figlio, ladro di attenzioni della moglie. Momento centrale dello spettacolo, il monologo si alterna con respiri affannati al microfono e voci che raccontano malattie del morente. Non è il capitolo meglio riuscito: il flusso di parole notevole sembra incoerente a una dimensione anziana e moribonda così come Iervolino sembra non riuscire a tenere la sua iniziale trasfigurazione da anziano. Il terzo punto è il figlio. Qui la scena si sdoppia, in spazi diversi della scena da una parte Lui racconta il rapporto con la moglie e dall’altra con la figlia chiamata Pasticcino. Non c’è frenesia ma un lento scandirsi, alternarsi delle storie (un grosso contributo in questo passaggio ha il disegno luci di Riccardo Cominotto, come la musica di Massimo Cordovani che fa sempre da contrappunto e da sostegno alla narrazione).

Nel lato destro della scena Lui, fermo ma arrabbiato, alterca urlando litigioso con la moglie a cui racconta la voglia di lasciarla, la noia del rapporto, i suoi tradimenti in tono violento con donne accondiscendenti. Nel lato sinistro Lui prepara il tavolo, la colazione, e tra una spremuta, un caffè e un pane e marmellata rivive il dialogo con la figlia che dal tema dell’olocausto va al monito di non percepire le storie in modo stereotipato, fino ad arrivare a leggere la violenza, anche quella sulle donne come un momento di arricchimento interiore. Dopo esser stato violato, spiega, ti senti più forte perché sai che puoi sopravvivere a quegli eventi. E’ già chiaro che dal dire, con la figlia passerà al fare. L’epilogo, intitolato come il nomignolo dato alla figlia Pasticcino, non riappacifica, sancisce la tendenza di questo uomo: sbattere in faccia alla moglie il vero rapporto con sua figlia. Ma resta un sospeso. All’annuncio che sta per dirle una cosa che le creerà sofferenza, segue solo diradarsi lento della luce che fa sparire la sua immagine. Gli spettatori già sanno. Nessuna sorpresa, solo la tristezza di questo profondo viaggio nel dis-umano.

Visto il 17-04-2015
al Nuovo Teatro Sanità di Napoli (NA)