Se il popolo di un sedicente paese europeo reclamasse, con un referendum, la reintroduzione della pena di morte, cosa succederebbe? Una lunga notte prima dell’ultima alba: un assassino rivela la sua umanità e il suo delirio.
Un uomo è rinchiuso in carcere: ha ucciso una donna. La galera, luogo di solitudine, frustrazione e punizione si trasforma in un mondo claustrofobico dove passare gli ultimi istanti di una vita maledetta. L’identità è azzerata e gli individui, vestiti di amorfi pigiami grigi, divengono “numeri”. Ha ucciso, è stato giudicato, verrà giustiziato. Ancora poco e sarà soddisfatta la sete di giustizia; sangue chiama sangue, non c’è perdono, solo vendetta.
Una scenografia di pannelli in alluminio immersi nella penombra riempie il palco, e trasmette la fredda atmosfera di una cella per condannati a morte. In sottofondo, una melodia lamentosa tende a disturbare e riempie i vuoti, trasmettendo al pubblico l’angoscia vissuta dal protagonista.
Il carcerato parla ad un piccolo topo, il suo unico amico, attento uditore delle sue disgrazie, a cui racconta la storia di un gioco perverso nato dal caso, e conclusosi in tragedia. Dopotutto, pedinare la gente era il suo passatempo preferito, un divertimento piuttosto sadico, ripetuto decine di volte, mai con l’intento di far del male.
Un essere gretto, dal linguaggio duro, fatto anche di parole triviali, ma sempre chiaro e diretto; è un represso che ha imparato ad essere forte con i più deboli, indifeso contro i potenti. Come un topo in gabbia aspetta la sua ora. Cerca di ricordare cosa sia successo quella notte. Nel suo confronto con l’onnipotente guardia carceraria non sa spiegare il perché di un gesto così efferato, e ne subisce le angherie.
La sua anima è tormentata, il suo corpo è consapevole della fine, vorrebbe morire subito ma, deve attendere e, questo, lo fa impazzire. Cerca il conforto del suo amico, gli tende la mano perché vorrebbe accarezzarlo, sentire il calore di un corpo che trasmette vita. Un morso, e la fine del piccolo essere è segnata: «Perché l’hai fatto? Ho dovuto ucciderti!» urla disperato verso il corpo del roditore, con le mani intrise di sangue e lo sguardo perso. Ha dovuto nuovamente uccidere, ma non voleva.
L’ora è arrivata, il carceriere entra nella cella, applica le manette ai polsi, lo guarda con disprezzo e lo conduce al patibolo. Lui, abbassa il capo, il suo corpo non si ribella e obbedisce alla forza della guardia. Escono di scena. Una musica riempie il vuoto lasciato. Si spengono le luci. Tutto è concluso.
Cesare Beccaria diceva, nel suo famoso libro “Dei delitti e delle pene”, che “...se dimostrerò non essere necessaria la pena di morte ne utile, avrò vinto la causa dell’umanità…”. Rappresentare in teatro un’opera che analizza il punto di vista del carnefice è sicuramente un passo in avanti. Una piccola vittoria da dedicare ad una grande causa.
Milano – Teatro La Scala della Vita – 11 novembre 2007
Visto il
al
Tordinona - Sala Pirandello
di Roma
(RM)