Lirica
SEMIRAMIDE

GRANITICA SOLITUDINE DEL CUORE

GRANITICA SOLITUDINE DEL CUORE

Un anno dopo il matrimonio con Isabella Colbran, Gioachino Rossini chiude la carriera italiana con Semiramide, che debutta a Venezia nel febbraio 1823 e costituisce il punto di arrivo della restaurazione formale settecentesca perseguita dal compositore: la forma chiusa e il belcanto trionfano e dominano la partitura senza contrasti. Ma una cosa è l'esaltazione del secolo precedete, un'altra il recupero di singoli stilemi guardando un passato presunto e idealizzato e soprattutto con una sensibilità completamente nuova e aggiornata.

Semiramide ha inaugurato la stagione di Napoli dopo un lungo periodo di oblio sotto il Vesuvio (una sola rappresentazione tra il 1877 e oggi). Ma al San Carlo chi si aspettava una ricostruzione storica perfetta o cercava le porte di Babilonia appena viste al Pergamon Museum di Berlino poteva starsene a casa: Luca Ronconi altera completamente l'ambientazione e offre una lettura classica e didascalica in cui la ricerca dell'oggettività finisce con il compromettere il plot e le situazioni psicologiche.
Lo spazio creato da Tiziano Santi è fisso, alte pareti di pietra senza uscita solcate da profonde crepe, una realtà sul punto di sgretolarsi e di implodere, travolgendo chi c'è dentro. Limitata l'attrezzeria, qualche rocco di colonna, un paio di capitelli corinzi, una catasta di specchi rotti con le cornici scrostate e ossidate. Una scena che prevede numerosi mimi nudi inghiottiti fino alla cintola e che pertanto necessita di un alto basamento che rende parziale la vista dalla platea.
I costumi di Emanuel Ungaro rimandano a una barbarica primitività per le pelli legate intorno alla vita e per i torsi nudi, invero resi con splendidi corpetti in lattice. Essenziali per la riuscita di uno spettacolo praticamente privo di scenografia le luci di A. J. Weissbard, soprattutto man mano che ci si avvia al finale e il buio aumenta. Parimenti essenziali le parrucche e il trucco, curato da Annamaria Sorrentino e di straordinaria perfezione, soprattutto in personaggi come Oroe.
La regia di Ronconi cerca il significato oltre il segno ma rischia di restare distante e generica nel rendere i tumulti sentimentali dei protagonisti. Le pedane semoventi trascinano i cantanti avanti e indietro come pedine nelle mani di un destino che li sovrasta e non concede né salvezza né pena alternativa: la pietra incombente che domina la scena pare riflettersi così sui comportamenti. Si è apprezzata in particolare la presenza dei mimi affondati nel pavimento, bloccati senza scampo un po' come la protagonista di “Giorni felici” di Beckett; uomini nudi e desolati, stanchi, occupati da un doloroso sfinimento, presenti fisicamente eppure assenti, imprigionati in un altrove invece irreale e irrealizzabile: una granitica solitudine del cuore che non si riesce a scalfire.

Nel cast ha dominato Simone Alberghini, uno splendido Assur per fisicità e vocalità; il cantante scava nelle pieghe del personaggio con un fraseggio sempre incisivo e trova sfumature e dettagli resi con impasti vocali raffinati e calibrati; rimprovero, amore e rimorso si miscelano idealmente nell'intensissimo inizio del second'atto e nel sotterraneo lasciano il terreno all'allucinazione e a una protervia ormai indomabile. Maria Pia Piscitelli adatta il ruolo del titolo alle sue corde con intelligenza; il centro è sontuoso, non c'è difficoltà nell'acuto che però resta poco luminoso e la voce è chiara per i gravi che il personaggio richiede; il prosperoso seno nudo (finto) esibito per tutta la recita, gli alti stivali di pelle nera che lasciano scoperta la pelle dell'inguine, la parrucca verde irsuta, la ragnatela indossata come una collana: in questo si risolve la sua Semiramide dominatrice. Silvia Tro Santafè è Arsace, voce duttile e piacevole, ma non aiutata dall'esile figura nella contesa a tre con Assur e Idreno; a suo agio nelle agilità, la cantante compensa il volume con la varietà delle sfumature. Barry Banks è un Idreno che punta maggiormente sull'impeto che sulle corde amorose, la voce è esile seppure non sgradevole e non è a disagio nelle agilità delle due arie in cui praticamente si risolve la parte. Annika Kaschenz è una Azema seducente come una gatta, il volto triangolare, la posa languida alla Paolina Borghese. Federico Sacchi è un Oroe ascetico e giusto vocalmente, un Oroe in versione San Simeone stilita, un anacoreta centenario appollaiato sopra una colonna, scalzo e coi lunghissimi capelli candidi come la barba. David Ferri Durà è un Mitrane fisicamente esilissimo ma dall'imponente acconciatura rasta. Completa il cast la voce dell'ombra di Nino, Gianvito Ribba, qui reso evidente dal corpo del defunto re garzato come una mummia e posto dentro un sarcofaco che scende dall'alto.

Gabriele Ferro dà respiro alla partitura non serrando i tempi, ottiene omogeneità dalle masse orchestrali e si mantiene in equilibrio tra la compostezza neoclassica e la reazionarietà di Rossini. Il coro, preparato da Salvatore Caputo, è in buca, invisibile.

Pubblico numeroso, scettico sullo spettacolo ma convinto dalla parte musicale e dunque in sala fino alla fine con applausi. Da registrare le nuove, rosse divise del personale di sala, eleganti e con una collana simile a quella degli scaligeri ma girata sulla schiena, che quindi pare un guinzaglio. Particolarmente curato il programma di sala sia nei saggi sia (e soprattutto) nella parte iconografica.

Visto il
al San Carlo di Napoli (NA)