In apertura di stagione l’Opera di Firenze mette in scena Semiramide, capolavoro serio rossiniano da troppo tempo assente dal palcoscenico fiorentino, nell’allestimento creato da Luca Ronconi nel 2011 per il San Carlo di Napoli, per ricordare il grande regista da poco scomparso che con il Maggio Fiorentino ha avuto un rapporto artistico intenso e duraturo. Lo spettacolo di Ronconi, ripreso da Marina Bianchi e Marie Lambert, limita la componente monumentale e decorativa presente nell’opera per focalizzarsi con taglio asciutto sui drammi dei soli protagonisti, intorno ai quali si concentra l’attenzione di regista e spettatore.
Le masse corali infatti, che rivestono nell’opera un ruolo importante da un punto di vista musicale, sono collocate nella buca orchestrale e rimangono invisibili al pubblico in quanto prive, secondo Ronconi, di un’autentica funzione drammatica. Più che a un grand-opéra si assiste quindi a una tragedia a “porte chiuse” che trova la giusta ambientazione scenica nello spazio essenziale e rarefatto di Tiziano Santi: una scena praticamente vuota, chiusa da una parete di fondo petrosa solcata da crepe profonde che generano l’attesa di una catastrofe. Ridotti all’essenziale gli elementi scenici per affermare il concetto di disgregazione: qualche capitello corinzio e frammenti di colonna, basamenti dall’intonaco screpolato, grandi cornici rotte affastellate a suggerire una pira. Lo spettacolo porta il marchio di fabbrica di Ronconi nell’uso reiterato di pedane mobili su cui sono posizionati i protagonisti che vengono trasportati avanti e indietro lungo la scena come burattini dalla staticità esasperata che stride col disegno sempre mutevole del loro canto e, oltre al continuo movimento delle pedane, si alzano e abbassano porzioni di scena che inghiottono come sabbie mobili il popolo babilonese: mimi a torso nudo conficcati nel suolo dalle schiene inarcate in un doloroso spasimo a tradurre una situazione desolata e senza scampo. Come abbiamo detto il coro è invisibile, ma i mimi sono una presenza ricorrente: oltre a quelli conficcati nel suolo, ci sono mimi nudi e striscianti che si aggrovigliano come serpenti ai piedi di Semiramide e che prendono poi le sembianze di uomini bendati come mummie per evocare i magi e le visioni di Assur. Unica concessione al “soprannaturale” una teca trasparente che scende dall’alto rimanendo sospesa nel vuoto con all’interno la sagoma del defunto Nino che si scoperchia a effetto. Pertinenti con l’impostazione registica le luci di A. J. Weissbard (riprese da Pamela Cantatore) che ammantano il primo atto di toni cinerei e terrosi a cui seguono nel secondo cupe e notturne tinte azzurrine che preparano gradualmente l’oscurità quasi totale necessaria al compimento della catastrofe. La produzione si avvale dei bei costumi disegnati dallo stilista Emanuel Ungaro che riesce ad evocare con corazze dai pettorali scolpiti, pepli che svelano seni nudi (finti) e abiti di pelle sfilacciati una situazione barbarica senza tempo.
Non convince, a partire da un’ouverture statica dai contorni poco brillanti, la direzione di Antony Walker (chiamato in sostituzione del previsto Bruno Campanella), che non riesce ad articolare un tessuto connettivo morbido e cangiante di appoggio al virtuosismo delle voci. Semiramide è un’opera monumentale e neoclassica, ma i tempi decisamente dilatati (soprattutto nel primo atto) ne inibiscono bellezza e portata drammatica. Non sempre precisa l’orchestra. Buona invece per omogeneità e compattezza la prova del coro (come di consueto diretto da Lorenzo Fratini) “penalizzato” dall’essere collocato in buca.
Note positive per quanto concerne il cast vocale. Nell’ultima Semiramide andata in scena al Maggio nel1968 la protagonista era Joan Sutherland, interprete inarrivabile nel ruolo; ora è la volta di un’altra cantante australiana, Jessica Pratt, che da qualche anno sta ripercorrendo con successo il repertorio della “Stupenda” per la spettacolare coloratura e un registro acuto infallibile: non a caso il punto di forza della sua Semiramide sono acuti e sovracuti fulminanti di raro nitore; certo, la Semiramide della Pratt è fin troppo “cristallina” e il controverso personaggio vorrebbe maggior corpo e ombreggiature nel registro grave, ma il suo “Bel raggio lusinghier” scatena applausi da stadio e all’Opera di Firenze ritorna (finalmente!) l’entusiasmo. Silvia Tro Santafè è un Arsace dalla voce non particolarmente importante ma duttile e piacevole a livello timbrico e convince per il fraseggio sfumato e la sensibilità d’interprete che emerge nei riusciti duetti con la protagonista. Un po’ altalenante Mirco Palazzi: si apprezza il colore della voce e le giuste intenzioni espressive ma si ravvisano dei limiti nel canto di coloratura che non ha quella forza e precisione che il perfido personaggio di Assur richiede. Ci è piaciuto l’Idreno di Juan Francisco Gatell per l’emissione precisa e curata, il modo sensibile di porgere il canto e la cura delle sfumature. Oleg Tsynulko è un Oroe tonante. Scenicamente gradevole ma non troppo caratterizzata da un punto di vista interpretativo l’Azema di Tonia Langella. Concludono il cast il Mitrane di Andrea Giovannini e l’ombra di Nino di Hanyoung Lee.
Altra nota positiva la grande affluenza di un pubblico numeroso (quasi esaurita la recita pomeridiana domenicale) e attento che ha tributato pieno consenso a tutti gli interpreti e qualche dissenso al direttore.