Roma, teatro dell’Opera, “Semiramide” di Gioacchino Rossini
I MOMENTI CHE CI TOLGONO IL RESPIRO
Semiramide di Rossini ha aperto la stagione 2005 dell’Opera di Roma, stesso titolo con cui 125 anni fa è stato inaugurato il teatro, allora chiamato Costanzi. Scritta nel 1823, Semiramide è un’opera “seria”, ultima opera “italiana” di Rossini, e narra la storia della regina babilonese, che fece uccidere il marito per succedergli sul trono; anni dopo la vendetta giunge per mano del figlio, al termine di un fitto intreccio di equivoci e storie d’amore.
Musicalmente Semiramide è un’opera straordinariamente bella, un monumento, una summa per tutto il periodo, il testamento dell’opera barocca: la strumentazione è raffinata, più possente che in altre opere, impegnativa la concertazione, lussureggiante la vocalità, dall’alto sfoggio virtuosistico. Nella produzione del Pesarese costituisce un’operazione di riflessione, ma a ben guardare è un ritorno indietro solo apparente, poiché si tratta di rivisitare le proprie origini forte di un’esperienza assai più solida. I barocchismi presenti nella partitura traducono intelligentemente l’orientalismo dell’ambientazione, offrendo uno scenario musicale ricco di fascino. Ma gli elementi di novità stanno nella ricchezza e nella complessità della struttura: le arie si mescolano e si inseriscono in un contesto ricco di concertati e di interventi corali, con un passaggio fluido da una realtà all’altra. La scelta dell’argomento (da Voltaire) sembra ricondurre ad atmosfere neoclassiche, seppure lo spirito che pervade l’intera opera è totalmente nuovo, presentando elementi drammatici e musicali che troveranno ampio sviluppo nel melodramma italiano a venire, da Bellini a Verdi.
A sipario chiuso viene suonata la splendida Ouverture, fra le più belle di Rossini, scritta secondo i canoni tipici del grande Marchigiano eppure rivelatrice di una maturità espressiva notevole, tanto nell’invenzione tematica che nel colore dell’orchestrazione. Poi si alza il sipario e si rimane senza respiro: la musica si traduce in immagini e le immagini si fanno emozioni. Il geniale Pier Luigi Pizzi ha immaginato un cupo interno barocco di porfido rosso e capitelli corinzi dorati, che è insieme reggia e mausoleo, un luogo monumentale, claustrofobico ed incombente, uno spazio senza luogo dove la Regina, perno della tragedia, è sempre presente, dentro il quale vive tutte le sue angosce ed i suoi rimorsi, fino all’inevitabile catarsi. Nella “chiesa” barocca domina, sopra una scalinata, una grande urna marmorea (la tomba del re Nino), su cui è appoggiata una corona: davanti officia il sacerdote Oroe, qui un vescovo di straordinaria forza iconica. Dunque un grande spazio barocco, perché Semiramide è l’ultimo esempio di grande opera barocca. Ma anche elementi neoclassici, perché, pur essendo opera barocca aperta verso nuovi e sorprendenti orizzonti romantici, Semiramide mantiene tutte le forme di una concezione melodrammatica neoclassica, riscoprendo il senso della storia e la necessità di un rilancio emozionale della razionalità dell’ultimo Settecento. Ecco allora vestiti stile impero, richiami napoleonici e una paolina in primo piano su cui si sdraia la Regina, che appare dominata dal senso di colpa e dall’attesa del castigo, un’ossessione che pervade tutti i protagonisti, una sorta di incubo collettivo. Interessante però è verificare che più il libretto inclina i personaggi verso la coscienza della propria colpevolezza e della propria sottomissione al destino, più la musica li fa impennare verso un’incosciente e liberatoria felicità (ne è esempio la celebre aria del soprano “Bel raggio lusinghier”).
Gianluigi Gelmetti ha diretto con piglio deciso cantanti e orchestra ed i tagli operati sullo spartito alleggeriscono l’opera senza alterarne la struttura: una Semiramide realmente integrale provocherebbe forse una certa noia all’ascoltatore contemporaneo.
Magnifici i cantanti. Per esaltare i loro momenti belcantistici Pizzi ha inserito due passerelle che scavalcano il golfo mistico verso la platea. Michele Pertusi interpreta il ruolo, di grandissima difficoltà, di Assur, e fornisce una prova da basso con cadenze quasi barocche: Pertusi è splendido, sia nella vocalità che nello stile. Indimenticabile il duetto del secondo atto con Semiramide cantato sulla paolina, un magma infuocato di amore, odio, potere, ricatto, delitto, complicità, nefandezze, ambizione, morte. Nel ruolo del titolo si segnala la giovane Anna Rita Taliento, a suo agio in una parte vocalmente impervia, ma impegnativa anche dal punto di vista attoriale (la protagonista è sempre in scena). Ottima ed applauditissima la sua esecuzione della splendida cavatina “Bel raggio lusinghier” (uno dei momenti più felici della partitura, insieme all’entrata di Arsace “Eccomi alfine in Babilonia … Ah! Quel giorno ognor rammento” e all’aria di Idreno “Ah dov’è il cimento”). Antonino Siragusa è un buon interprete di Idreno, una voce tenorile perfetta per il repertorio rossiniano che arriva alla fine senza problemi. Anna Rita Gemmabella ha sostituito egregiamente le indisposte Barcellona e Oprisanu nel ruolo di Arsace, meritando tanti applausi da parte del pubblico, seppure dovrebbe curare di più la dizione. Ugo Guagliardo è stato l’affascinante e raffinato Oroe, Claudia Farneti una adolescenziale Azema. Ottima prova del coro, che canta in due tribune mobili affrontate ai lati del palco.
Il complesso spettacolo sottolinea perfettamente, pure nella fissità della scena e dei costumi, gli stati d’animo ed i climi in cui si svolge la vicenda, sostenendola con atmosfere e colori perfettamente aderenti, utilizzando stoffe, materiali e luci assolutamente azzeccati. Uno spettacolo di una bellezza formale impressionante, da togliere il respiro. E se è vero che la vita si misura non dai respiri che facciamo ma dai momenti che ci tolgono il respiro, questa Semiramide è da non perdere.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Roma, teatro dell’Opera, il 22 febbraio 2005.