SENSO

Il grido dell'anima…d'altri tempi…

Il grido dell'anima…d'altri tempi…

Assistere a questo spettacolo significa assistere ad un’opera teatrale d'altri tempi. Non tanto per l'argomento, ma sopratutto per il tipo di recitazione e di regia adottati.
Per quanto riguarda la trama, la storia è tanto semplice quanto crudele, una storia di amore e vendetta.
La contessa romana Livia Serpieri, dopo aver sposato un anziano conte, più per sfida a lui e al prete, che non per vero amore, in preda a quella solitudine che solo chi ha tutto può sentire, prima è adulata dal giovane avvocato Gino (di 16 anni più giovane di lei) poi conosce il vero amore. Infatti, inaspettatamente, si innamora di un tenente nazista, Remo Waldner, con cui ha degli incontri nascosti. Lui approfitta del potere sociale di lei, ottenendo soldi (che ella racimola come può) e un falso certificato medico che lo esonera dall'impiego nell’esercito.
Tutto va bene, finchè la contessa non lo sorprende a ridere abbracciato ad un'altra donna, mentre si fanno beffe di lei e del suo vestito azzurro. La vendetta è spietata e, forse, neanche troppo voluta dalla stessa contessa che, evidentemente non si era resa bene conto di quello che stava facendo.
Livia Serpieri si reca al comando armato portando la lettera che svela che Remo è un disertore. Per questo l'uomo viene fucilato, davanti agli occhi della contessa (che è stata invitata all’evento dal generale Autmann – che poi disprezza la contessa per aver fatto la spia e, evidentemente, per averlo fatto con un suo soldato) e dell'altra donna che corre persino a soccorrere l'amato Remo.
La vendetta è stata compiuta. Ma ciò che lascia nell'anima della contesa è una grandissima sofferenza con forza motrice doppia: quella per aver amato un uomo che non la meritava e quella per aver distrutto l'unico uomo che ella abbia mai amato!
Cosa rimane alla contessa? L'ossessione per la scrittura.
La scena dello spettacolo era a dir poco lugubre, con tre fantocci monacali mummificati sul fondo e sui lati della scena, un giaciglio con lenzuola bianche sulla sinistra ed uno scrittoio apparentemente vecchio ed ammuffito, il cui unico elemento femminile era un vasetto con un fiore rosso, sulla destra: quasi un ambiente lugubre medievale.
Il vestito indossato dall’attrice era una semplice vestaglia azzurra sopra ad una tunica grigia: certo un abbigliamento poco consono ad una contessa, ma daltronde si adattava al resto della lugubre scenografia ed anche al testo della pièce (ambientato nei tristi anni '40) ed allo stile di recitazione "antico" e "sofferto" di Isabella Giannone.
Come se non bastasse, tutto il monologo è stato accompagnato da musiche e vocalizzi lugubri di sottofondo, persino la prima canzone della pièce era un canto gregoriano!
Insomma, non era né un Grand Guignol né una forma di rievocazione delle pene medievale, ma ne aveva entrambe le forme!
Lodevole è stata l'interpretazione che l'attrice Isabella Giannove ha dato della contessa, sia nell'intonazione della voce, che variava, in base alle tristezze da raccontare, che nei movimenti sul palcoscenico, che rappresentavano i luoghi della sua storia d’amore.
Certo si avvertiva in lei un qualche accento romano, ma la sua recitazione è stata talmente "alta" e “sentita” che l’inflessione non era di molto disturbo.
L'intonazione della voce è stata a dir poco magistrale. Non era un tipo di recitazione naturale come siamo abituati a sentir recitare gli attori al giorno d’oggi (quasi con un tono da tutti i giorni), ma nonostante i toni evocativi ora più, ora meno sofferti (quasi un vero pianto), e forse soprattutto per quelli, aveva la recitazione aveva un sapore volutamente retrò, un non so che di decadente-crepuscolare, proprio come si racconta che erano gli attori tragici a cavallo tra l'Ottocento ed i primi del Novecento. E questo particolare ha reso curioso lo spettacolo, nel senso di non consueto, da brivido.
Quindi tutto (nello spettacolo) aveva un sapore antico: le scene, i costumi, la recitazione, le musiche.
I gesti ed i movimenti dell'attrice erano misurati. I gesti erano, come da clichè attoriale moderno, quasi nulli. I movimenti, invece, essenziali, tra le varie "location" dello spettacolo sul palcoscenico, non lasciavano mai presagire quello che avrebbe fatto, dove sarebbe andata; non erano bruschi, ma dolci e convinti, quindi attraenti. In pratica, da sola, Isabella Giannone ha "riempito" il palcoscenico, come solo i veri e grandi attori sanno fare. Davvero una forma di armonia tra corpo e voce!
Davvero un plauso va fatto ad Isabella Giannone per quest'interpretazione.
Certo gli amanti delle pièce comiche, d'amore o contemporanee si troverebbero spiazzati davanti ad un simile spettacolo, lugubre e antico, con toni da noir psicologico; ma la notevole completezza di Senso, benchè sia uno spettacolo insolito al giorno d'oggi, va notata. 

Visto il 25-01-2011
al Zeta di L'Aquila (AQ)