Continua questa interessantissima edizione di Short Theatre, che ha debuttato il 3 settembre all'India di Roma e prosegue ora, fino all'11 settembre, al Macro La pelanda, la sede testaccina del nuovo museo di arte contemporanea di Roma, in uno spazio ricavato dal vecchio mattatoio dell'urbe, ancora in fase di rodaggio, ma che ben si sposa con la vocazione di Short Theater di essere più che un festival o una rassgena una manifestazione che tasta il polso alla scena teatrale contemporanea del nostro Paese e oltre. La qualità e a diversità degli spettacoli proposti dimostrano che alla vocazione corrisponde una capacità soprendente e i due teatri in cui prende luogo, due squsiti esmepi di architetura industriale, di spazi riconvertiti ad un impiego culturale, fanno respirare nonostante i tagli alla cultura un'aria davvero europea.
Di questo primo giorno di programmazione nella nuova sede siamo riusciti a vedere solamente lo spettacolo di Roberto Latini ed è dunque solo per motivi contingenti se non recensiamo gli altri che non abbiamo potuto vedere.
Fellini non è Pirandello
Lombardi, l'uomo dal fiore in bocca, è lieve e svagato, e interpreta il testo pirandelliano con una leggerezza che è, al contempo, una prova altissima d'attore e un atto di rispetto per il testo, che riesce sempre a proferire con chiarezza e nitore. Latini invece insiste troppo sui toni alti della voce, quasi fastidiosi, quasi gracchianti, con certi effetti recitativi da doppiaggio cinematografico, inseguendo un ritmo discorsivo che si sgancia dal significato del testo, rischiando di non farsi capire con la dovuta pulizia e precisione.
Se ci si chiede il perchè delle scelte registiche si fatica invece a trovare risposte altrettanto immediate.
Latini ha ragione quando afferma, nelle note di regia, che abbiamo il dovere di considerare il testo - e i classici in generale - non come letteratura, ma come materiale a disposizione dell’appuntamento-teatro. Però lì'operazione che compie ci pare sbilanciata troppo dal lato dell'appuntamento a discapito del testo.
Latini veste il testo pirandelliano di una atmosfera vaga, malinconica, onirica, felliniana, da circo, i cui officianti sono due clown malinconici e solitari. Questa decontestualizzazione del plot originale (che vuole l'azione svolgersi nel bar di una stazione ferroviaria) invece di aggiungere chiarezza al testo rischia di diluirne senso e significato in un allestimento che tende a essere solo un esercizio di stile. La partitura sonora soffoca il testo perchè insiste (forse troppo) su musiche malinconiche e impiega una serie di rumori (i reiterati spari cui Latini finge di cadere colpito) e di ripetizioni, a mo' di eco, fatte in diretta, dall'audio amplificato dei due attori, di alcune loro parole e risate. L'impressione è che regia e musiche non siano al servizio del testo di Pirandello ma che lo considerino quasi un pretesto. Non si può negare a questa messinscena una coerenza formale, e bisogna riconoscere a Lombardi i picchi emotivi e recitativi che riesce a raggiungere con mestizia e semplicità, ma forse avrebbe giovato, e non solo alla recitazione di Latini, una maggiore misura.
L'UOMO DAL FIORE IN BOCCA
di Luigi Pirandello
con
l’uomo dal fiore in bocca, Sandro Lombardi
il pacifico avventore, Roberto Latini
adattamento e drammaturgia Sandro Lombardi
regia Roberto Latini
scene Luca Baldin
costumi Marion D’Amburgo
luci Gianni Pollini
musiche originali Gianluca Misiti