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SHORT THEATRE 2012 PRIMA SERATA

Un esordio memorabile

Un esordio memorabile

Non poteva aprirsi in maniera migliore questa settima edizione di Short Theatre con una selezione di spettacoli, italiani e non, che mostra, se ce ne fosse bisogno (e forse per la sensibilità alla cultura di una certa Italia sì), la buona salute del teatro contemporaneo, nonostante i tagli finanziari (che quest'anno hanno colpito anche Short Theatre) fatti con un machete sempre più arrugginito dalle logiche del profitto e del commercio.

L'onore (e l'onere) di aprire questa settima edizione è toccato a Teatro Sotterraneo.

Homo Ridens si presenta come una performance pensata come esperimento su campione, un test sul pubblico-cavia chiamato a reagire a determinati stimoli che attengono al riso e ai suoi meccanismi come si legge nel programma di sala.

I test cui il pubblico vien sottoposto sono naturalmente solo un proforma, l'interfaccia tramite la quale  Sara Bonaventura, Iacopo Braca, Matteo Ceccarelli e Claudio Cirri (orchestrati da Daniele Villa che firma la drammaturgia) interagiscono col pubblico.

Test falsi nella forma ma non nella sostanza che mettono lo spettatore dinanzi la propria responsabilità etica.

Un percorso ad ostacoli durante il quale si perde l'illusione di potersi attenere al politicamente corretto e ci si lascia andare a una risata che non è mai liberatoria, ma, al contrario, anestetizzante (come ricorda Bergson).

Una risata interdetta dalla Chiesa paleocristiana e medievale, e che ha costruito una iconologia su un Cristo che non ride mai.

Una risata che tradisce più che il cinismo una certa disabitudine all'emozione, troppo preoccupato a comportarsi come ci si aspetta nelle situazioni dinanzi le quali viene posto, piuttosto che stare a sentire davvero cosa prova e vagliare la genuinità di quell'emozione e a quali conseguenze porta.

Che si tratti di uniformarsi alla retorica del dolore, dando la risposta politicamente corretta dinanzi certe foto (dei morti in un lager nazista,  i resti di una mano dopo l'attentato alle torri gemelle di New York, un bambino africano denutrito probabile preda di un uccello predatore) o di reagire dinanzi la rappresentazione della violenza (spari, percosse date con giornali arrotolati) o del dolore (un malato terminale in carrozzella, l'attrice che grida che è tutto finto e intanto vine allontanata di peso, davvero, dalla scena) Homo rindens mentre ci mette di fronte  la nostra impermeabilità alla (rappresentazione della) violenza,  ragiona con noi sulla violenza della rappresentazione.

Una rappresentazione che ci distrae da se stessa ingannandoci con una parvenza di realtà invece di ricercare la sua ragione di essere nella sua verità comunicativa.

La violenza non è infatti solamente quella rappresentata e resa spettacolo - che c'è e Homo ridens ne (di)mostra tutto l'insostenibile appeal - ma, ancor prima e primigeniamente, la violenza stessa della rappresentazione.

Una rappresentazione che per essere seguita abbiamo creduto erroneamente doversi basare sulla sospensione dell'incredulità di Coleridge mentre non si tratta di dimenticare che quello che stiamo vendendo sia finto per crederlo vero.

Quello che ci attrae della rappresentazione e ci induce  a prendere per vero quel che ci viene posto dinanzi sembra essere piuttosto il fascino della condizione di spettatore. Un punto di vista dal quale possiamo assistere alle disgrazie altrui senza essere esposti direttamente allo stesso rischio, gioendo della disgrazia altrui nella misura in cui ne siamo immuni e salvi.

Così dopo aver individuato alcuni spettatori ai quali si vogliono distribuire le stesse percosse che hanno atterrato Matteo Ceccarelli,  Sara Bonaventura e Claudio Cirri chiedono loro se credono che adesso verranno picchiati a loro volta e gli si risponde che no,  non lo saranno, perchè non lo possono fare.

Protetti da una retorica della rappresentazione che non può davvero mai oltrepassare la finzione anche quando oltrepassa la quarta parete (a meno di  conseguenze penali...) il pubblico contemporaneo, ci ricorda Teatro sotterraneo, cioè noi, godiamo di una immunità spettatoriale che non conosce deroghe.

Una immunità che ci anestetizza quanto più ci mostra da vicino il dolore e la violenza altrui glissando sulla prima vera spettacolarizzazione della violenza e del dolore che esiste, proprio in questa distanza protettrice che c'è tra noi e ciò che ci viene mostrato, rappresentato, ricostruito.

Il riso allora diventa l'ultimo sintomo di una vitalità che sembra assopirsi, un interdetto che da solo può rompere la retorica dell'atarassia con la quale siamo abituati a vivere.

E' così che le risate del pubblico durante una scena che mostra i tentativi falliti di Sara di suicidarsi, interrompono la rappresentazione (questa è la regola della scena: se si ride la si interrompe) momentaneamente, o addirittura, definitivamente. Per ricordare che dalla responsabilità su quel che assistiamo, anche se solo come spettatori, non ci affranchiamo davvero mai.


Teatro Sotterraneo
Homo ridens_Roma

creazione collettiva Teatro Sotterraneo

in scena Sara Bonaventura, Iacopo Braca, Matteo Ceccarelli, Claudio Cirri

scrittura Daniele Villa

consulenza costumi Laura Dondoli, Sofia Vannini

locandina Rojna Bagheri

grafica Marco Smacchia

produzione Teatro Sotterraneo

coproduzione Armunia, Centrale Fies

  col sostegno di Comune di Firenze - Assessorato alla Cultura e alla Contemporaneità, Le Murate, Suc (Spazi Urbani Contemporanei)

 
in collaborazione con Santarcangelo 41

Teatro Sotterraneo fa parte del progetto Fies Factory



Ancora sulla rappresentazione, ma da un punto di vista completamente diverso, L’effet  de Serge del francese Philippe Quesne e Vivarium Studio per l’attore Gaëtan Vourc’h.

Serge la domenica esegue delle performance della durata da 1 a 3 minuti ai suoi amici che vengono, assistono, commentano, e se ne vanno. Su questo nucleo narrativo l'attoreperformer imbastisce uno spettacolo che ragiona sulla performance e non solo quelle di Serge.

Lo spettacolo si apre con l'attore in un costume da cosmonauta mentre spiega direttamente al pubblico che si tratta della scena finale dello spettacolo precedente (così come L'effet de Serge si concluderà con l'inizio dello spettacolo successivo).

Vourc’h ci illustra la scena, presentata come l'abitazione di Serge, con la moquette non fissata nella quale Serge potrebbe anche stendersi infilandovisi sotto, il tavolo da ping pong che funge da scrivania, lo stereo, il lettore dvd e il televisore    coi quali Serge può ascoltare musica o vedere film.

Un elenco di potenzialità, di cose che Serge può o non può fare e che effettivamente fa mentre lo vediamo semplicemente vivere (ordina la pizza, vede un film, gioca con un modellino radiocomandato di un elicottero che vola davvero) mentre una voce fuoricampo (nata da un esecisio per la voce col quale SergeVourc’h può parlare senza muovere le labbra...) glossa sui giorni che passano introducendo le diverse domeniche durante le quali gli amici di Serge vengono a trovarlo per assistere alle sue performance.

Discreti, timide, le amiche e gli amici di Serge seguono tutti lo stesso rituale, accoglienza, ritiro delle giacche, offerta di qualcosa da bere, restando giusto il tempo della performance  per poi tornarsene da dove sono venuti.

Prima singolarmente, di domenica in domenica, poi, alla fine, tutti insieme, dimostrando di conoscersi, ma di non passare molto tempo insieme.

Infatti anche dopo la performance collettiva se ne vanno tutti alla spicciolata.

Anche l'amica per la quale Serge  ha un debole e che si è attardata, ultima ospite, e con la qual sembra possa succedere qualcosa ala fine se ne va.

Geniali le performance che Vourc’h esegue, da un bastoncino per le scintille argentate posto su una macchina radiocomandata (nascosta sotto una scatola), al gioco di luci manovrando i fari e le frecce di posizione di un'automobile (che giunge davvero in scena e che vediamo al di là dell'ampia porta finestra che occupa la metà sinistra della scena) sulla musica di Wagner, alla proiezione di un fascio laser che si modifica a suon di musica (di John Cage).

Delle performance minimali dopo ognuna delle quali Serge attende i commenti dei suoi amici, commenti prevedibili, imbarazzati, che in realtà non dicono nulla (ah, le luci, il fumo, la musica...) o quasi (mi sembrava di precipitare dentro un tunnel) prima del commiato, proprio come facciamo tutti quanti a teatro.

L'effet de Serge è un elegante lavoro sul teatro e sullo spettatore, sulla fruizione e sulla performance, sul racconto e  sul personaggio (la vita solitaria di Serge che vive da solo malgré le performance e i suoi amici) che si fa metafroa della condizione solitaria del performer ma anche, più latamente, della solitudine che ci riguarda tutti e tutte.

Raccontato con una calma disarmante, con una leggerezza ma una precisione nell'esecuzione che non fanno pesare mai i "tempi morti" (quelli in cui Serge prepara la performance o quando gli amici mangiano della pizza e bevono del succo d'arancia), L'effet de Serge diverte e commuove, intrattiene mentre fa riflettere sul teatro e su noi stessi proponendoci una performance  a cavallo tra teatro, musica, arti sceniche  (la scenografia che è uno dei personaggi della rappresentazione) esercizio performativo e arte visiva (le performance di Serge).

Uno spettacolo che il fortunato pubblico romano ha potuto vedere grazie all'impegno di ricerca di Short Theatre e alla sua vocazione europeista.


Philippe Quesne / Vivarium Studio (FR)
L’effet de Serge

Ideazione, direzione e scene Philippe Quesne

con Gaëtan Vourc’h, Isabelle Angotti, Rodolphe Auté, Cyril Gomez-Mathieu, e ospiti del luogo

musica di André Prévin, Gillian Hills, Howe Gelb,
Sophia Loren, Wagner, John Cage,The Patriotic Sunday, Sparklehorse,
Colleen, Antoine Duhamel, Willy Deville, Arnold Goland, Abbc, Vic
Chesnutt, Led Zeppelin, José Feliciano


produzione Vivarium Studio

con il supporto di Forum scène conventionnée de Blanc-Mesnil, festival actOral montévidéo - Marsiglia

Debutto novembre 2007 presso la Ménagerie de Verre - Parigi

Vivarium Studio è finanziato dal DRAC Île-de-France (Ministero della Cultura Francese) e Conseil Régional Île-de-France.

La compagnia è sostenuta da Institut français – Ministères des Affaires étrangères et européennes per la tournée internazionale


E' poi la volta di una performance pura di Franko B dal titolo I'm Thinking of You nella quale il noto performer di visual art (sono essenzialmente un pittore che fa anche performance. Vengo dalla
visual art e non dalla tradizione dello spettacolo dal vivo
) al centro del foyer del Teatro India campeggia su una altalena dorata completamente nudo, il corpo istoriato da una serie di tatuaggi che ne illustrano una storia, da leggere e decifrare, con il pubblico che deve passeggiare girandogli intorno mentre la compositrice Helen Ottaway esegue dei suoi brani al pianoforte.

Presentato nel programma di sala come visione romantica della fantasia e dell’abbandono del mondo
dell’infanzia
dove l'altalena costituisce un oggetto dell’infanzia che Franko B ha trasformato in una
scultura
, la performance si snoda nel doppio centro del perfomer e del pubblico che reagisce alla sua presenza.

Da un lato abbiamo un corpo ricoperto di tatuaggi da scoprire (girandogli intorno) vedere e decifrare dall'altro un pubblico che guarda incuriosito forse imbarazzato dal nudo integrale con cui Frank B si espone al pubblico, dove però non è la nudità a parlare ma il corpo tatuato e i suoi segni, un corpo che porta le tracce di una storia che noi possiamo solo immaginare. Così mentre Franko B pensa a qualcuno  noi partendo dai dati che abbiamo, il suo corpo, i suoi tatuaggi, respiriamo una malinconia struggente, la mancanza che ogni ricordo porta con sé perchè pensare a qualcuno ne sancisce l'assenza anche solo momentanea.

Franko B (IT/UK)

I’m thinking of you




La prima serata di Short Theatre si conclude con Jonathan Capdevielle almeno per noi che abbiamo scelto il suo Adishatz/Adieu, Copi lo vedremo domani sera.
 
Adishatz, "Addio" in guascone, è incentrato sulla figura performante del suo interprete, Jonathan Capdevielle che, microfono alla mano, canta a cappella alcuni brani di Madonna, dimostrando di possedere una voce ben impostata verso i toni da soprano piuttosto che quelli da tenore, un soprano naturale e non in falsetto, come dimostrerà quando canterà brani della tradizione guascone senza ausilio del microfono. Hit di successo di Madonna internazionalmente conosciuti tra i quali si insinuano di tanto i tanto canzoni tradizionali in francese. Filastrocche anche licenziose nelle quali si accenna a possibili abusi sessuali di adulti oppure dove, più semplicemente, il testo fa infantilmente allusione licenziosa alle parti anatomiche maschili e femminili.

Grazie alla postura, all'esitazione di Capdevielle, il personaggio che interpreta mentre canta ci appare timido, fragile, come se fosse incapace di esprimere la propria personalità che il giovane affida al non detto dei testi delle canzoni.
 
Poi mentre al buio si veste da donna davanti una toletta, dando di spalle al pubblico, per una serata en travestì  in una discoteca di provincia dove il personaggio lavora, con una grande duttilità interpretativa Capdevielle ci restituisce una telefona tra padre e figlio, dove l'elencazione delle piccole quotidianità (la visita alla tomba materna e a quella di Nathalie e le passeggiate in montagna del padre un'operazione all'occhio per una cisti del figlio) suggerisce il non detto di un rapporto interrotto chissà per quali ragioni.

Il dialogo si sposta quindi tra il giovane e Nathalie (la sorella?), malata terminale che restituisce lo sfaldamento familiare al quale fa da contraltare la serata in discoteca dove il giovane protagonista, ora in abiti femminili, intrattiene il pubblico misto, uomini e donne, della discoteca.
La serata si conclude all'alba assieme ad amici  e amiche, violenti, attaccabrighe, ma potrebbero trattarsi anche solo di una fantasia dettata dall'alcool.

E dopo il vomito e le litigate, due brani conclusivi cantati con l'ausilio dell'Ensemble corale dell’università di Montpellier, prima un brano pop e poi un brano della tradizione alpina francese, riportano il protagonista alle sue  radici familiari erose.

Spettacolo interessante Adishatz/Adieu deve molto alla verve interpretativa del suo esecutore - un po' in tono minore nei panni da drag queen ravestito, anche
musicalmente parlando -  diseguale nei risultati, troppo sbilanciato nella prima parte dove l'esecuzione delle molteplici, forse troppe, canzoni toglie spazio a quella del dialogo con il  padre e con Nathalie, complice anche la mancata traduzione dei testi delle canzoni in francese (lo spettacolo, in lingua francese, è stato presentato al pubblico coi sovratitoli, che hanno tradotto solamente i dialoghi e non le canzoni, almeno quelle in francese). 

L'indeterminazione del vissuto del personaggio, vera cifra estetica dello spettacolo, come si può leggere nelle belle note di  Jonathan Capdevielle  sul suo sito (in francese)  lascia troppo spazio all'immaginario collettivo dello spettatore che potrebbe, per superficialità sua e non dello spettacolo, ridurre l'intera operazione alla storia di un giovane omosessuale che fa il travestito di provincia in seguito a un abuso sessuale subito da bambino. Questa è solo una delle letture possibili che lo spettacolo permette (la più facile) mentre si incentra sull'aura del non detto e della memoria vista come erosione della tradizione familiare e come monumento a una solitudine esistenziale che, a detta del suo stesso autore, non diventa mai tragica.

Allo spettacolo avrebbe forse giovato una maggiore concisione e qualche riferimento biografico più esaustivo ma il personaggio interpretato da Jonathan Capdevielle resta nel cuore dello spettatore e, solo per questo, Adishatz/Adieu  raggiunge il suo scopo.

 

Jonathan Capdevielle (FR)
Adishatz / Adieu

ideazione e interpretazione Jonathan Capdevielle

disegno luci Patrick Riou

direzione tecnica e suono Christophe Le Bris

collaborazione artistica Gisèle Vienne

sguardo esterno Mark Tompkins

assistenza al suono Peter Rehberg

assistente artistica per la tournée Jonathan Drillet

con la partecipazione di ECUME, ensemble corale dell’università di Montpellier – direzione musicale Sylvie Golgevit

con Paco Lefort, Jean-Luc Martineau, Tao Mezarguia, Kevin Thiolon, Benoit Vuillon.

  ringraziamenti a Aurélien Richard, Mathieu Grenier, Jean-Louis Badet, e a Barbara Watson e Henry Pillsbury
con  il supporto di DACM e l’équipe tecnica di Quartz, Scène Nationale de Brest
produzione e distribuzione Bureau Cassiopée

in coproduzione con Centre Chorégraphique National de
Montpellier Languedoc Roussillon dans le cadre de domaines (FR), Centre
Chorégraphique National de Franche-Comté à Belfort dans le cadre de
l’accueil studio


(FR) et BIT Teatergarasjen, Bergen (NO).

con il sostegno di Centre National de la Danse per la concessione delle sale prove

 

 
Visto il 05-09-2012
al India di Roma (RM)