Considerando i magnifici personaggi in scena, la musica della Moni Ovadia Stage Orchestra dal vivo, l’attesa nei confronti di uno spettacolo tratto dal pretesto di mettere in scena un testo di Shakespeare, nientemeno che Il mercante di Venezia, ecco come la mia delusione per quanto visto al debutto sia stata profonda. Innanzitutto perché, debbo proprio dirlo, qualsiasi frase celebre e molto significativa, se viene estrapolata da un contesto e poi ripetuta più volte, in lingue diverse, coi sottotitoli proiettati sul fondale insieme a immagini di ogni genere, non è che alla fine si stampi nella mente del pubblico di più: diventa un’ossessione insopportabile e perde di significato!
Ormai non credo che si possa fare nulla per migliorare questo lavoro, firmato a quattro mani da Roberto Andò e Moni Ovadia, entrambi uniti pure a curare la regia, tristissima, buia, illuminata forse più dalle sgargianti giacche di paillettes multicolori oversize del personaggio dell’impresario, un per quanto bravo Ruggero Cara che nulla poteva se non fare del suo meglio, magari pure convinto. Ma come si fa a riproporre il monologo di Shylock che chiede se un ebreo, punto, sanguina come tutti gli altri, facendolo pronunciare da un improbabile Hitler, in tedesco con sottotitoli, per cui era forse la seconda o terza o quarta versione della stessa battuta, per poi dare all’infermiera in giarrettiere e calze bianche la voce dell’indignazione, gridata in spagnolo, che urlava che non si fa. E che Ovadia ovviamente insulta dandole della cretina. Come me, forse. Non ci ho capito una mazza, di questo allestimento. La cosa più difficile, in questa accozzaglia di improbabili simbolismi, è la pretesa di spiegare o solo mostrare perché tutti ce l’hanno con gli ebrei, ovvero perché ci sono tanti pregiudizi.
In effetti potrebbe essere utile riguardare per l’ennesima volta le foto di persone dagli sguardi luminosi aperti sul mondo, tutti morti nelle camere a gas e cremati nei forni nazisti, come Anna Frank e tutti gli altri in bianco nero, proiettati sul muro con la musica o altro. Devo però aggiungere che, pur molto attenta a seguire il tutto, francamente sono rimasto piuttosto disgustata dalle volgarità e dalla sguaiatezza di alcune scenette, oltre che da battute talmente fuori luogo in tal contesto da far rabbrividire. Inutile dire che a mio avviso un vecchio attore che si fa toccare lascivamente dall’attricetta in cerca di un ruolo e che, non prima di aver apparentemente goduto del suo potere, un attimo prima di farsi slacciare i pantaloni la getta a terra con un ‘Non sono mica il presidente del consigli!’ è una scena di un altro film. Ma che diavolo c’entrava con Shylock?
Se vogliamo fare allusioni alla cronaca, allora non si porti in palcoscenico anche argomenti seri davvero, non si presenti Moni Ovadia che indossa il ‘tefillim’ sul braccio e sulla testa, commettendo quasi un sacrilegio, per poi muoversi col ‘talleth’ avvolto addosso, salmodiando -qui sì, in modo magnifico- un canto antico ebraico. E allora forse è più facile dire cosa mi è piaciuto: la sua voce e pochi altri momenti significativi, la musica dal vivo e un momento di sarabanda fra tutti gli interpreti che, per quasi due minuti, ha riportato in vita il genio di Tadeus Kantor, quando faceva ballare i suoi cadaveri ne ‘La Classe Morta’. Sul resto stenderei un pietoso velo, specialmente sul ruolo di Shel Shapiro che, non so per quale maligna ragione, ha interpretato il vecchio Shylock per la maggior parte del tempo sdraiato su un letto d’ospedale, vestito di una palandrana squallida e costretto a tremare incurvato per apparire vecchissimo e malato, tanto che di fatto era Moni a ‘sostituirlo’ per farlo riposare di più.
Qui non si parla della tristezza shakespeariana, ma della tristezza di una grande, incredibile occasione perduta. Peccato. Posso solo cogliere l’occasione per fare i miei complimenti a Moni Ovadia, che ha perso tutta la panza che lo appensantiva da alcuni anni, anche se non è una ragione sufficiente per dì salire su un trampolo e saltare a piè pari anche lì troppe volte. Una sola volta bastava. Insomma, è sembrato del tutto dimenticato l’antico e assoluto dogma teatrale che ‘il meno fa di più’ e mai il contrario.