Venezia, teatro La Fenice, “Siegfried” di Richard Wagner
IL RAGGIUNGIMENTO DELLA PERFETTA FELICITA'
Siegfried è la seconda giornata del Ring wagneriano, in scena nella produzione di Robert Carsen e Patrick Kinmonth per l'Oper der Stadt Köln e il teatro La Fenice.
Dopo la neve e il gelo di Valchiria l'anno scorso, ecco le macerie ed i rottami di Siegfried, un allestimento che seduce, coinvolge e convince, nonostante l'inevitabile confronto con le recenti, stupefacenti prove wagneriane della Fura dels Baus al Maggio fiorentino.
Siegfried è l'opera più ostica del Ring, e non solo per le implicazioni sociali, culturali e antropologiche che si porta dietro. Carsen la guarda con ironia e, come già in Valchiria, la attualizza e la demitizza. Ancora pareti grigie, quasi catramate, foderano il palcoscenico e fanno da contenitore all'azione. Il primo atto è ambientato presso una specie di discarica, in cui Mime vive con Siegfried dentro una roulotte. Il secondo atto in una landa deserta punteggiata da monconi di alberi spezzati da una tempesta o dalle mani dei giganti. Il terzo ancora in quel salotto razionalista (di cui al secondo atto della Valchiria), ma in fase di smobilitazione: il quadro che ricorda l'aspra montagna è appoggiato ai lati del camino, i mobili sono accatastati e ricoperti di cellophane, le mele, fonte di eterna giovinezza (che Wotan aveva scagliato via dal vassoio durante lo scontro con Fricka), sono sparse sul pavimento. Il finale è dove si era chiusa la giornata precedente, quel deserto sabbioso con elmi e spade disseminati in giro e le fiamme a proteggere il sonno di Brünnhilde (come dimenticare l'ironia dell'immagine di Wotan che con un accendino dava in via alle fiamme alla fine di Valchiria..).
Carsen ha la capacità di coinvolgere e di sorprendere. Qui uno sguardo va a Brecht, uno al cinema degli anni Trenta, uno alla realtà postindustriale. La sua genialità è nel mutamento totale di atmosfera da un atto all'altro, pur nella omogeneità dell'impianto scenotecnico, e nello scavare nella psicologia dei personaggi, tutti profondamente terreni, ma in modo completamente diverso da Patrice Chéreau e da quel Ring che aveva scandalizzato negli anni Settanta e che invece poi è stato accolto favorevolmente qui il regista non vuole indagare la realtà sociale contemporanea, bensì i lati dell'anima e del comportamento e da qui partire per un'indagine critica che si allarga. Con risultati eccellenti. Inaspettatamente il canadese inserisce delle punte di ironia; Mime prepara una torta per Siegfried, la appoggia sul tavolo da picnic, la ricopre di panna e ci pianta sopra una ciliegina, ma il ragazzo scopre le vere intenzioni del nano malefico, lo uccide e quest'ultimo cade con la faccia nella torta. Oppure la benna di un escavatore al posto delle fauci del drago, benna che poi diventa la caverna di Fafner. O ancora quando Siegfried corre dalla Valchiria e, per l'eccesso di ormoni o la curiosità dell'amore, dimentica la spada Notung e trotterella indietro a riprenderla, tenero ragazzotto innamorato.
Perfetti scene e costumi di Patrick Kinmonth, eccellenti le luci di Manfred Voss.
Siegfried è forse il ruolo tenorile più impegnativo mai scritto; Stefan Vinke lo interpreta in modo ottimo (e anche di più, se possibile), in perfetta aderenza alle note di regia (come d'altronde gli altri cantanti): dotato di notevole voce, riesce a tener testa all'orchestra per quattro ore, arrivando fresco e senza velature al lungo duetto finale con Brünnhilde. Passa da mezzevoci morbide a acuti squillanti, da un registro medio brunito a passaggi fluidissimi, dalla gioia fiabesca alla curiosità adolescenziale, alla rabbia sovrana, alla tenerezza dell'innamoramento. Il tutto con il giovanile ardore che si addice al personaggio, innocente e sprovveduto, credulone e ingenuo, eroe per caso, suo malgrado. Che però alla fine raggiunge la perfetta felicità dell'amore.
Eccezionale il Mime di Wolfgang Abliger-Sperrhacke, sia vocalmente che attorialmente; egli riesce ad uscire dallo stereotipo del personaggio caricaturale (in cui si vorrebbe vedere l'antisemitismo del compositore) e, complice una regia con molte idee vincenti, a renderlo buffo e ridicolo ma mai volgare o risibile. Questo Mime è piuttosto un cencioso “padre coraggio”, un robivecchi assetato di vendetta, un povero mentecatto che vuole riavere, tramite Siegfried, quello che non è suo e che non ha mai avuto.
Robusto vocalmente ed elegantissimo nell'aspetto il perfetto Viandante di Greer Grimsley, corretti Bjarni Thor Kristinsson (un dignitoso Fafner), Werner Van Mechelen (un Alberich alcolista), Anne Pellekoorne (una casalinga Erda) e Inka Rinn (l'uccellino). L'indisposta Susan Bullock è stata sostituita all'ultimo minuto da Jayne Casselman e la sua Brünnhilde è risultata scurissima, con una voce quasi contraltile e poca cura nei registri medio e grave.
Jeffrey Tate, sempre sensibile alle ragioni delle partiture wagneriane, ha diretto con passione, sicurezza e pulizia l'orchestra della Fenice, tenendo ben sotto controllo la sezione dei fiati e lavorando gli eccellenti archi, che hanno prodotto suoni puliti e luminosissimi, curando in modo particolare le tante pagine malinconiche.
Teatro gremito, pubblico molto coinvolto e alla fine plaudente e soddisfatto.
Visto a Venezia, teatro La Fenice, il 17 giugno 2007
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
La Fenice
di Venezia
(VE)