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SIGNORI, IN CARROZZA!

Inno al Teatro, tra pagliette e paillettes

Inno al Teatro, tra pagliette e paillettes

La Valigia delle Indie era un servizio treno-navale che, nella seconda metà dell’Ottocento, collegava Londra a Bombay passando da Brindisi. Siamo negli anni 40-50 del Novecento e si sparge la voce che la linea venga ripristinata e allietata da spettacoli viaggianti. Così due Compagnie di guitti si disputano l’ingaggio. In realtà, entrambe sono pronte a intraprendere un percorso temporale, una partenza  verso la speranza: Signori in carrozza!

La chiusura nelle rispettive logiche identitarie di gruppo, dei grossetani fintisi francesi (capitanati da un’impetuosa Gaia Bassi e dallo stesso regista Paolo Sassanelli, di grande misura, n.d.r.) e dei veraci partenopei filo-germanici (capeggiati dall’istrionico Ernesto Lama affiancato dall’intensa Marit Nissen, n.d.r.) crea un clima di rivalità, di incomprensione quasi razziale inquadrata con toni di ironica leggerezza. Una tenzone combattuta a suon di canzoni, che la musica, con il suo linguaggio universale, infine appiana. Iter prevedibile e finale scontato? No, perché il lavoro di Andrej Longo, un po’ commedia un po’ musical un po’ riflessione introspettiva, ha improvvisamente un guizzo luminoso, una svolta decisiva e significativa che trasforma l’ingenuo omaggio al passato, in emozione.

La band “Musica da Ripostiglio – Salvatore Cardone” ha piacevolmente travolto gli spettatori già nel foyer, accompagnandone l’ingresso in sala. Escamotage che ha resa tangibile la sovrapposizione tra il teatro ospitante la rappresentazione e il “Verdi” di Brindisi, dove la vicenda era ambientata. Poi il fiume in piena delle citazioni ha sommerso con prolissità. Dixieland e jazz, sceneggiata e café-chantant, avanspettacolo e vaudeville; strizzate d’occhio a Marlene Dietrich e Anna Magnani, a Macario, Petrolini e Vanda Osiris; travestimenti e gag che hanno attinto a piene mani ai mitici Totò e Peppino; spiritosi misunderstanding linguistici e buffi neologismi, in un rutilare di ricordi, tra pagliette e paillettes.

I rimandi musicali hanno iniziato a sovvertire l’ordine cronologico e il significato dello spettacolo, assumendo vesti di anticipazioni del futuro, di premonizioni: Pino Daniele ed Elvis Presley, Adriano Celentano e Frank Sinatra. Il baule di costumi, da cui erano fuoriusciti tanti personaggi, si è materializzato in scena dando corpo all’immaginario e trasformando il plot in un inno al Teatro stesso e agli artisti che lo tengono in vita. Un luogo tanto simbolico quanto reale, fatto di mattoni scalcinati e vetrate rotte (scene di Luigi Ferrigno), di tendoni sporchi e fantasmi del passato. Uno spettro in carne e ossa, l’ex custode travestito (l’istrionico Giovanni Esposito, n.d.r.), ha lanciato anatemi a quanti avrebbero smesso di recitare. Smascherati l’ectoplasma e l’imbroglio, ovvero il non esservi alcuna occasione di lavoro ma solo un edificio destinato alla demolizione, il grido si è alzato lacerante: “L’ho fatto per salvare il teatro”. Rovesciamento dell’ottica in auge nel periodo barocco, quando i teatranti erano identificati come razza maledetta e scomunicata. La laica blasfemia, per un attore, è non recitare. È delitto, non dare continuità alla tradizione scenica, che confonde finzione e verità in un nobile unicum. La risata esteriore, il candore dei buoni sentimenti, la perseguita semplicità (mai semplicismo) si sono cinte di lirismo nell’incarnare l’anima del Teatro: luogo dove la magia si fa poesia e viceversa. Basta salire “in carrozza” per scoprire che non è vero che i sogni non portino da nessuna parte.

Visto il 24-11-2015
al Sociale di Castiglione Delle Stiviere (MN)