Le due attrici sono in scena, già prima che gli spettatori prendano posto in platea. Una delle due è prona, con un mobile antico che la
sovrasta. La seconda è in fondo al palcoscenico, seduta sui talloni, il busto ricurvo in avanti, dando di spalle al pubblico.
Quando lo spettacolo inizia si capisce subito che non siamo di fronte a un classico spettacolo di teatro e nemmeno a uno di danza.
Nemmeno la formula teatro-danza si addice alla performance delle due bravissime attrici-performeuse, Simona Bertozzi e Ramona Caia.
Lo spettacolo parte dalla rarefazione del salotto borghese delle due signorine, del quale rimangono solo un mobile, una bacinella e una pentola, dalla rarefazione della parola, sottratta, assente, e irrilevante, quando è presente, mentre la morale per quanto rarefatta schiaccia le due protagoniste a un destino ineluttabile, all'orizzonte di due esistenze conosciute costringendo le due Signorine a movimenti ripetuti, ossessivi, dettati, al contempo, da un impeto di emancipazione possibile ma improbabile e dalla disperazione per
essere prigioniere di ruoli, di paure, dei propri limiti.
Le due attrici si muovono dando sempre le spalle al pubblico. Quando la coreografia le fa girare verso la platea le teste si voltano
imperterrite a mostrare al pubblico sempre una nuca che cela, dall'altra parte, una bocca distorta da un ghigno osceno, disegnato col rossetto , un ghigno che si intravederà, senza mai mostrarsi pienamente.
Tra rotolamenti, piegamenti, flessioni e contorcimenti degni delle migliori contorsioniste (una delle due riesce persino a chiudersi dentro il piccolo mobile...) lo spettacolo prosegue, di quadro in quadro, lasciando col fiato sospeso, perché si percepisce il
malessere delle due protagoniste, ma anche la loro gran voglia di vivere, un afflato alla vita che non trova il coraggio di essere e rimane sospeso in un gesto ripetuto, nella complessità di un movimento, nella testardaggine della ripetizione disordinata.
Ma nulla sembra essere necessario, e, la ripetizione può anche essere il capriccio borghese di chi si annoia della vita, di chi è narcisisticamente chiuso nell'autocompiacimento di sé.
E alla fine, il riferimento, nel programma di sala, a Beccket ("Il lavoro si ispira alle opere (...) Mal visto mal detto (1981), Respiro (1968) e al cortometraggio Film (1963).") rimane un puro pretesto. Così come criptica è la ragione dell'inserimento di questo spettacolo in una rassegna di Teatro Omosessuale. L'opera di astrazione, di rarefazione, è talmente radicale che è impossibile, almeno per chi scrive, procedere a ritroso dal gesto delle due attrici al testo (o al contesto) degli spettacoli citati. Come in un quadro di Mondrian i rami degli alberi hanno lasciato posto alle righe e alle superfici di colore e l'emozione per l'astratto che sostituisce l'organico si confonde con la frustrazione per non riuscire a seguire il senso dell'operazione, nemmeno la sua eco emotiva, che rimane trattenuta, sospesa, in uno spasmo di piacevole incertezza.
Roma, Teatro Belli, 19 e 20 Giugno
Visto il
al
Teatro i
di Milano
(MI)