Lirica
SIMON BOCCANEGRA

Il naufragio della speranza

Il naufragio della speranza

La Scala riprende, in chiusura di stagione, il Simon Boccanegra del 2010 che aveva mandato in pensione lo storico allestimento di Giorgio Strehler (sei riprese tra il 1971 e il 1982 tutte dirette da Claudio Abbado). Federico Tiezzi, uomo di lunghissima esperienza teatrale soprattutto nella prosa, inserisce la vicenda privata narrata in un contesto storico e politico più ampio ma non connotato temporalmente come da libretto. Le scene di Pier Paolo Bisleri traggono ispirazione dalla pittura dei preraffaelliti, quindi con una chiara impronta ottocentesca; gli eventuali riferimenti al medioevo appaiono sempre e comunque filtrati attraverso gli occhi di Puvis De Chavannes, Burne Jones, Rossetti. Fanno eccezione alcuni rimandi alla metafisica (i volumi grigi nel prologo, che poi tornano nel finale) e al romanticismo, con un quadro di Caspar David Friedrich, una veduta di mare in tempesta contro le rocce che invero, oltre che mare, potrebbe essere deserto o distesa di sale o ghiacciaio: un luogo comunque simbolico dove naufraga la speranza. Di pace, di vivere, di amare.

Il prologo si svolge su una scena divisa a metà: a destra la tolda di una nave, un elemento orizzontale dominato da funi e tiranti di vele con lo sfondo aperto; a sinistra parallelepipedi grigi strutturati in verticale e percorsi da scale dove il corteo funebre di Maria è anticipato da prefiche in mantelli neri. Il primo atto è intorno a una vasca su cui dondola una barchetta a vela ma durante l'agnizione padre-figlia quattro cipressi con le radici in vista lentamente scendono dall'alto. Nella scena del consiglio un coro dorato dalle punte gotico-fiorite e gli archetti trilobati, davanti un trono gigantesco e, appeso in alto, il quadro di cui si è detto. Stessa scena per il secondo atto, con un lunghissimo tavolo nel mezzo in orizzontale. Nel terzo atto è rimasto solo il trono dorato che si staglia contro un cielo corrusco grigio-nero e l'orizzonte di macerie (già nel giardino dei Grimaldi). Nel finale scende uno specchio che riflette palchi e platea, poi, inclinandosi, l'orchestra e il protagonista morente: la dimensione privata diviene pubblica. Nel mentre il coro sale dal basso, vestito in abiti ottocenteschi. Simone si accascia al suolo ai piedi del trono, dove naufraga ogni speranza.

Tiezzi dipana una regia narrativa ai limiti del didascalico e lo svolgersi degli eventi è come prevedibile che sia, dai marinai in controluce dell'inizio alle scene confuse delle masse: le plebi azzurre con bastoni, i nobili rossi con spade. Una regia che, sul palco, porta poche tracce delle ricche annotazioni espresse nell’intervista contenuta nel programma di sala. Eleganti e sfarzosi i costumi di Giovanna  Buzzi, stoffe sontuose e preziose, operate e nei toni prevalenti di blu e verde. Molto bella la veste dogale di Simone (quasi papale), completata da copricapo appuntito; meno convincente la veste blu elettrico di Amelia del second'atto. Precise le luci di Marco Filibeck.

Quel che manca è il mare, solo evocato sulla scena: la tolda della nave, la barchetta nella fontana, il quadro. Quel mare che invece è così presente nella partitura da farsi esso stesso materia musicale.
Daniel Barenboim ne dà una lettura scura, densa, materica, con pennellate inchiostrate e tumultuose come un mare in tempesta. Anche i momenti più espressamente lirici (l'inizio del primo atto e il richiamo alla pace) paiono annegati in un mare torbido, senza onde ma che pur tuttavia prelude a oscure profondità, sempre. Nell'ouverture i tempi sono serrati, poi il raccordo con le voci porta a dominare la scansione. Barenboim subentra sul podio nelle recite di novembre a Stefano Ranzani e la mano dell’argentino si sente nell’esecuzione di classe giocata su un’orchestrazione dalle arcate grandi e armoniche.

Il pubblico aspettava la star Placido Domingo, dimostratosi ancora una volta in grande forma: la voce è piena, le note ci sono tutte, senza sussulti e senza incrinature, seppure i tempi sono parsi allargati qua e là ma sempre in linea con il personaggio. Il suo Simone, dopo tanti Gabriele Adorno portati in scena, ha l'acmè dopo la metà dell'opera: un doge nobile con grande aura e carisma. Ma, senza dubbio, la voce è quella di un tenore, seppure scurita da un timbro di un colore inconfondibile e, nel confronto con l'Adorno del bravo Fabio Sartori, non si sente abbastanza distanza tra di loro. Il Simone di Domingo è un uomo lacerato dai contrasti interiori e politici, che agogna una vita pacificata dentro e fuori di sé; un personaggio struggente e malinconico che testimonia il naufragio della speranza. Orlin Anastassov è un convincente Fiesco dalla voce spessa e corposa nei gravi pur iniziando con poco smalto. Molto bravo Artur Rucincki, un Paolo Albiani vendicativo e protervo che scandisce bene il verso riuscendo a trasmetterne le sfumature. Tatiana Serjan è Maria: la voce è ampia ed estesa, gli acuti saldi e sicuri, pieni e squillanti, corposo il medio, udibile e largo nelle note il grave che penetra l'orchestra senza alcuna difficoltà, pur restando aspro il timbro. Completano adeguatamente il cast Barbara Lavarian (Ancella), Ernesto Panariello (Pietro) e Luigi Albani (capitano dei balestrieri). Coro ben preparato da Bruno Casoni: il “Sia maledetto” è cantato come sciabolate e la chiusura d’atto viene resa in modo mirabile.

Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)