Lirica
SIMON BOCCANEGRA

Simone senza il mare

Simone senza il mare
Milano, teatro alla Scala, “Simon Boccanegra” di Giuseppe Verdi SIMONE SENZA IL MARE “Quest'opera ci svela la pericolosità e la bellezza dell'esistere, la sua assoluta malinconia”. Così il regista Federico Tiezzi nella lunga intervista riportata nel programma di sala e curata dall'ufficio edizioni del teatro. Tiezzi, uomo di lunghissima esperienza teatrale soprattutto nella prosa, inserisce la vicenda privata narrata in un contesto storico e politico più ampio ma non connotato temporalmente con precisione. Le scene di Pier Paolo Bisleri traggono ispirazione dalla pittura dei preraffaelliti, quindi con una chiara impronta ottocentesca; gli eventuali riferimenti al medioevo appaiono sempre e comunque filtrati attraverso gli occhi di Puvis De Chavannes, Burne Jones, Rossetti. Fanno eccezione alcuni rimandi alla metafisica (quei volumi grigi nel prologo e nel primo atto, che poi tornano nel finale) e al romanticismo, con un quadro di Caspar David Friedrich, una veduta di mare in tempesta contro le rocce che invero, oltre che mare, potrebbe essere deserto o distesa di sale o ghiacciaio: un luogo comunque simbolico dove naufraga la speranza. Di pace, di vivere, di amare. Il prologo si svolge su una scena divisa a metà: a destra la tolda di una nave, un elemento orizzontale dominato da funi e tiranti di vele con lo sfondo aperto; a sinistra volumi grigi, parallelepipedi strutturati in verticale e percorsi da scale. Il corteo funebre di Maria è anticipato da prefiche in mantelli neri. Il primo atto è intorno a una vasca su cui dondola una barchetta a vela; un drappo avorio isola il contesto dal fondale occupato da cumuli di blocchi grigi, come frammenti di edifici. Durante l'agnizione padre-figlia il drappo viene tolto con un colpo di mano e penzolano quattro cipressi con le radici in vista che, lentamente, scendono dall'alto. Poi la scena del consiglio: un coro dorato dalle punte gotico-fiorite e gli archetti trilobati, davanti un trono gigantesco e, appeso in alto, il quadro di cui si è detto. Stessa scena per il secondo atto, con un lungo tavolo nel mezzo in orizzontale. Nel terzo atto è rimasto solo il trono dorato che si staglia contro un cielo corrusco grigio-nero e l'orizzonte di macerie (già nel giardino dei Grimaldi). Nel finale scende uno specchio che riflette palchi e platea, poi, inclinandosi, riflette l'orchestra e il protagonista morente: la dimensione privata diviene pubblica. Nel mentre il coro sale dal basso, vestito in abiti ottocenteschi. Tiezzi dipana una regia narrativa ai limiti del didascalico, che accompagna lo svolgersi degli eventi come prevedibile che sia: dai marinai in controluce dell'inizio alle scene (confuse) delle masse: le plebi azzurre con bastoni, i nobili rossi con spade. Eleganti e sfarzosi i costumi di Giovanna Buzzi, stoffe sontuose e preziose, operate e nei toni prevalenti di blu e verde. Molto bella la veste dogale di Simone (quasi papale), completata da copricapo appuntito; meno convincente la veste blu elettrico di Amelia del second'atto. Quel che manca è il mare, solo evocato sulla scena: la tolda della nave, la barchetta nella fontana, il quadro. Quel mare che invece è così presente nella partitura da farsi esso stesso materia musicale. Daniel Barenboim ne dà una lettura molto scura, densa, materica, con pennellate inchiostrate e tumultuose come un mare in tempesta. Anche i momenti più espressamente lirici (l'inizio del primo atto e il richiamo alla pace) paiono annegati in un mare torbido, senza onde ma che pur tuttavia prelude a oscure profondità, sempre. Nell'ouverture i tempi sono serrati, poi il raccordo con le voci porta a dominare la scansione. Per quel che concerne il cast l'attesa era tutta per Placido Domingo, non solo dopo la recente operazione al colon. Il cantante è parso in splendida forma, la voce è piena, le note ci sono tutte, non un sussulto, non una incrinatura, seppure i tempi son parsi allargati qua e là, ma sempre in linea con il personaggio. Il suo Simone, dopo tanti Gabriele Adorno portati in scena, ha l'acmè dopo la metà dell'opera: un doge nobile con grande aura e carisma. Ma, senza dubbio, la voce è quella di un tenore, seppure scurita da un timbro di un colore inconfondibile e, nel confronti con l'Adorno del bravo Fabio Sartori, non si sente abbastanza distanza tra di loro. Il Simone di Domingo è un uomo lacerato dai contrasti interiori e politici, che agogna una vita pacificata dentro e fuori di sé; un personaggio struggente e malinconico: nel momento del trionfo, l'elezione a doge, con rabbia si toglie il mantello e lo scaglia a terra, lui che ha perduto l'amore e già sa che non potrà mai più amare nella vita. Ferruccio Furlanetto è uno ieratico Fiesco, scandisce ogni sillaba ed è attento alle sfumature con grande espressività, seppure la voce è parsa un poco stanca. Molto bravo Massimo Cavalletti, un Paolo Albiani vendicativo e protervo a cui riesce a dare una notevole impronta personale, esplorandolo nei dettagli. Purtroppo Anja Harteros è stata sostituita, per una indisposizione, da Ailyn Perez, la cui voce un po' debole e dai registri poco omogenei ha rivelato incertezze, non compensate dalla fascinosa presenza. Appropriata l'ancella rossa di capelli e pienamente rossettiana nelle movenze di Alisa Zinovjeva. Completavano adeguatamente il cast Ernesto Panariello (Pietro) e Antonello Ceron (capitano dei balestrieri). Coro preparato da Bruno Casoni: il “Sia maledetto” è cantato come sciabolate. Teatro esaurito da tempo, con fans di Domingo giunti un po' da ovunque. Vivo successo, con qualche dissenso, dal loggione per il direttore, in platea per il cast. FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)