E’ sempre molto difficile toccare un tema sociale importante - tossicodipendenza, prostituzione, ludopatia in questo caso - con un linguaggio come quello teatrale, senza farsi contaminare dalla patina di retorica che il dibattito istituzionale spesso deposita su questi argomenti.
Slot Machine - drammaturgia E. Montanari e M. Martinelli, riesce in questo intento difficile: può essere interessante aprire il meccanismo per capire in parte come.
Nata anche in seno alla splendida rassegna milanese “Da vicino nessuno è normale” che ne ha visto il debutto, lo spettacolo racconta con grande profondità la parabola di Doriano: contadino, persona semplice, legato a un elemento come la terra, si distanzia già, grazie a queste sue caratteristiche, dall’intrigante mondo di lustrini e smoking che è ancora, nell’immaginario collettivo, quello del gioco d’azzardo.
Notare questo, senza cadere nella nozione di “personaggio”, ha un valore nella misura in cui la parabola acquista significato grazie al fatto che il punto di vista viene tenuto rigorosamente fermo su Doriano. Le notizie arrivano dall’esterno (il postino, le telefonate dai creditori): noi le sappiamo da lui, e con lui restiamo fermi dentro la voragine interiore in cui ormai è scivolato.
A questo è funzionale la qualità della recitazione (la cantilena proposta riesce nel suo intento straniante: il racconto rimane, comunque, in parte letteratura).
Anche la notevole cura della scena contribuisce notevolmente al lavoro: la torcia che illumina parti di corpo, spezzettando la realtà; lo specchio che invece la raddoppia e unisce l’utile al poetico.
Una soggettiva che i dettagli rendono estremamente profonda (in questo forse più che nel tema, il lavoro richiama Dostoevskij); un racconto lucidissimo eppure nello stesso tempo sprofondato dentro una visione parziale e malata (Che altro potevo fare? dice Doriano, all’apice della distruzione).
La profondità dei dettagli mostra il lavoro di ricerca fatto sulla ludopatia: la verità delle testimonianze da cui lo spettacolo trae linfa.