Alla quinta regia dell'autore norvegese, Binasco affronta questa ulteriore sfida cercando soprattutto di creare un'opera che tracci il solco di un teatro d'attori, basato principalmente sul lavoro d'artigianato e sul cesello interpretativo, in una cornice registica elegante e mimetizzata tra pochi segni netti e precisi.
La prima scena disegna un cimitero di sedie sormontate da lumini e discreti ritratti di defunti, al centro un fondale nero ed una panchina, nessun altro orpello, tutta l'attenzione puntata su di uno scambio relazionale fra Uomo (Michele Di Mauro) e Donna (Giovanna Mezzogiorno), tanto marcato e pronunciato il primo, quanto dimessa e spesso monocolore la seconda. Un amore passato torna a bruciare in un incontro fortuito fra le lapidi, Eros e Tanatos s'incrociano facendo saltare gli schemi incardinati della famiglia dell'Uomo, mentre la Donna, prima timida e distante, rivela una solitudine d'attesa e ricordo, una voglia di rivincita.
Jon Fosse ritrae la famiglia contemporanea allo sfacelo, laddove inseguire il proprio desiderio e il sentimento autentico sono puniti da una vendetta pungente e senza scampo, dove gli egoismi diventano macigni insormontabili e creano conseguenze disumane. Così i genitori di Uomo, in una vertiginosa escalation di mimesi e sclerosi ripetitiva, rinfacciano l'abbandono del tetto coniugale e del figlio, dipingendo una scena grottesca, spremendo da una situazione di imbarazzo epocale accenti di comico cinismo, grazie anche alla interpretazione puntuale di Nicola Pannelli e Milvia Marigliano.
La spirale di disgregazione umana, fra sogno e rimorso, tocca il culmine quando l'incontro con la ex moglie Gry - una Teresa Saponangelo apparsa spesso eccessivamente inquadrata - annuncia la malattia e quindi la morte del figlio degli ex coniugi. Da qui si solleva vertiginosamente il sipario sulla condizione di Uomo, conteso fra la ricerca di una felicità ormai naufragata ed il macigno di una passato che schiaccia il cuore e la gioia di esistere, fino alla sua inevitabile dipartita.
Un testo profondo, una camera mentale che guarda a ritroso, ossessionata da una colpa, quella della ricerca della propria gioia a discapito di quella altrui, e che tocca, in questo viaggio, i temi più profondi del disagio contemporaneo: il Tempo sfasato, la Famiglia con gli orchi attuali, il Fato tralasciato. E lo fa con una modalità del tutto nordica, un distacco e spesso un gelo tagliente e l'Assoluto sempre presente, cambiando marcia con l'entrata in scena dei genitori di Uomo, fra melodrammatico e commedia, ma restando di fatto sempre in un'area distante dai toni mediterranei cui siamo abituati, a favore di un “suono del paesaggio”, come ama definirlo Fosse.
Binasco intercetta la visione glaciale dell'autore norvegese, ma compie scelte che non convincono fino in fondo: un tentativo non del tutto riuscito di sottrazione di Michele Di Mauro, pur sempre generoso e presente, e un inquadramento eccessivamente lineare di Giovanna Mezzogiorno, mentre gli altri interpreti restano schiacciati in ruoli abbastanza bidimensionali.
Lo spazio borghese famigliare di Fosse resta per gran parte dello spettacolo un incubo sospeso fra inquietudine lynchiana e pietismo medievale, senza spiragli di chiarezza o vie salvifiche a risolvere il grumo tragico dell'autore norvegese. In sintesi, uno spettacolo dotato di una regia accurata, ispiratrice di interpretazioni sottili e intelligenti, che però non sempre riescono a sviscerare la cresta profonda dell'opera di Fosse.