Era il 1972 e Tarkovskij girava Solaris, uno dei film che lo avrebbe consegnato alla storia della settima arte. Da allora il nome di questo pianeta, nato dalla penna di Stanislaw Lem nel 1961, è diventato nell’immaginario dei cinefili un vero e proprio paradigma filosofico: ciò che è reale è anche sempre vero? La storia dell’astronauta Kelvin, di sua moglie Harey e del dottor Astorius approda adesso per la prima volta in palcoscenico, dove a guardar bene il gioco tra realtà e suo doppio non è che l’essenza stessa della finzione drammatica.
Fantascienza filosofica?
Il Centro Teatrale Bresciano, in collaborazione con ScenAperta Altomilanese Teatri e con il contributo dell’Università di Avignone, affida alla riduzione drammaturgica di Fabrizio Sinisi e alla regia di Paolo Bignamini il compito di tradurre per la scena ”Solaris”, questa epopea filosofica dove la fantascienza in fondo è solo un pretesto.
“Tutto lo svolgimento del nostro lavoro ruota intorno a questa esigenza di confronto con l’Altro, a questo reciproco avvicinamento”, ci dichiara il regista e naturalmente è questa l’intenzione che conduce l’intero spettacolo, nel quale l’ottimo disegno luci di Fabrizio Visconti restituisce tra le ombre e il freddo di neon il folle ingranaggio che stritola il vero e terrestre Kelvin, da un lato, e l’insieme di neutrini che fanno di Harey un’abitante di Solaris. Il tutto sotto lo sguardo di Astorius, una sorta di Virgilio dantesco, impegnato a convincere Kelvin che anteporre la verità alla felicità e la scienza al sentimento sia inevitabile.
Dov’è il vero?
Kelvin approda sulla stazione orbitante intorno al pianeta Solaris, ma scopre che uno dei due colleghi si è tolto la vita, incapace di affrontare le misteriose presenze che si concretizzano nella stanze della stazione stessa. Gli ospiti, come li chiama Astorius ovvero proiezioni della propria mente. Comincia così per Kelvin l’incontro con la moglie Harey morta quattordici anni prima, lanciandosi dalla finestra dopo un furioso litigio. Brandelli di vita che apprendiamo dai dialoghi tra i tre personaggi, in un triangolo di ricatti morali, spiegazioni rimandate e momenti di tenera affettuosità. Dov’è il vero? Nella razionalità scientifica di Astorius, nei rimorsi di Kelvin o nell’affascinante bellezza di Harey? Forse è nell’incombere di una mancanza.
Quello che ci viene meno e arriva a mancarci con dolore lancinante, si ripropone a noi in immagini incombenti, mentre si palesa il bivio di come vivere con l’assenza del reale e la presenza di un’idea che del reale ha tutte le fattezze. Lo spettacolo, tuttavia, nonostante le premesse, procede lento e senza particolari strappi emotivi, mentre i tre attori smarriscono spesso ritmo e varietà interpretativa. Antonio Rosti è un Astorius a tratti gracchiante, Giovanni Franzoni un Kelvin dallo strano birignao. Più convincente senza dubbio Debora Zuin equilibrata nella sua sensualità di Harey.