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SOLO CENTO VOLTE

Tra follia e realtà, il lavoro off di De Martino

Tra follia e realtà, il lavoro off di De Martino

Una locandina dall’aria peccaminosa ed accattivante, che ritrae i sette protagonisti dello spettacolo, intitolato “Solo cento volte”, seduti a tavola, a torso nudo e con sguardi e atteggiamenti ambigui, ma in una posizione che rimanda esplicitamente a L’Ultima Cena di Leonardo Da Vinci.
Una sceneggiatura, quella scritta dalla fantasiosa penna di Emiliano De Martino, non priva di spunti originali, riassunta in una sinossi che attrae immediatamente la curiosità del potenziale spettatore. Un cast che, accanto allo stesso De Martino, vede un volto noto agli appassionati di soap opera tedesche – quello di Lorenzo Patané, interprete di “Robert” in Tempesta D’Amore – ed altri meno conosciuti ma annovera, comunque, nell’insieme, interpreti in grado di prestare la propria energia e preparazione tecnica ai rispettivi, insoliti personaggi, conferendo loro una certa “spinta” per farli arrivare al pubblico.
Ecco, quindi, uno psicologo, che appare sempre più coinvolto e stravolto nel seguire i casi clinici di due pazienti affetti dalla rara sindrome di Ganser, ovvero la proiezione di sé verso un altro soggetto immaginario, necessaria alla mente della persona malata al fine di mantenere in vita qualcuno che non c’è più e dal quale si rifiuta di separarsi, a seguito di un trauma subito.

La compagnia punta, dunque, su tanti fattori vantaggiosi per affrontare questo lavoro decisamente “off” e alcune idee della regia – anch’essa a cura di Emiliano De Martino - risultano interessanti. Per rappresentare, ad esempio, le due personalità di Camilla e della proiezione Susy e quelle di Sasà e della proiezione Piero, anziché ricorrere al medesimo attore, magari truccandolo e vestendolo in due modi o facendolo parlare in maniera differente, si sceglie di mettere in scena quattro interpreti, forse per rendere più “tangibili” anche i dialoghi tra il malato ed il proprio compagno immaginario.
Tramite l’utilizzo di luci e musiche, inoltre, si tende a dare un’impostazione onirica e surreale allo spettacolo, probabilmente per confondere il pubblico, lasciando fino all’ultimo aperto l’interrogativo su cosa sia reale e cosa immaginario. Così, una riflessione per certi versi pirandelliana su dove sia la realtà e dove la finzione o la follia, viene enfatizzata da scene psichedeliche e danze-disco dal valore simbolico, mentre il settimo, enigmatico, personaggio dalla stazza incombente, sposta le lancette di un orologio che campeggia al centro della scenografia.

È proprio nel lavoro di regia, però, che si colgono anche delle lacune e alcune incertezze. I dialoghi di Sasà e Piero, ad esempio, risultano più monotoni e ripetitivi rispetto a quelli tra Camilla e Susy (e tra queste due e lo psicologo), sbilanciando molto l’attenzione verso le protagoniste femminili rispetto a quelli maschili, i quali cominciano a svelarsi piuttosto tardi, rischiando di annoiare lo spettatore. Anche la scelta di far parlare i due uomini in napoletano finisce per togliere quel velo di tensione e drammaticità che si dovrebbe almeno intuire e che invece salta fuori con maggior evidenza nelle due ragazze.
Si torna, dunque a quella “spinta” decisiva che la regia non riesce, purtroppo, a dare ai personaggi per farli arrivare in modo efficace al pubblico, coinvolgendolo maggiormente.

Visto il 17-02-2015