Danza
SORELLINE

La ricerca teatrale di Cateri…

La ricerca teatrale di Cateri…
La ricerca teatrale di Caterina Sagna è unica nel suo genere sia per il tipo di coreografie che propone nei suoi spettacoli sia per il modo di presentarle. Sorelline, partendo da Piccole donne di Louisa May Alcott, messo in scena per la prima volta nel 2001, e ora riproposto con un nuovo organico al teatro Palladium, è una ricerca sulla sororanza che non si risolve in una questione di genere (tant'è che Sagna impiega due danzatori e due danzatrici per interpretare le 4 sorelle) ma di attitudine, di comportamento, di prescrizione comportamentale. Superando il cotè edificante e precettistico della perfetta sorella del romanzo di Alcott, Sagna arriva al centro del conformismo (piccolo)borghese contemporaneo, mostrandone l'ipocrisia e la vera ragione di essere: una competizione continua che non ha nulla di innocente, un desiderio di voler apparire, dissimulato dalla solidarietà tra sorelle, che si mostra presto per quel che è: attesa per cogliere la prima occasione di prevaricazione. Non tragga in inganno il titolo, la sororanza che individua lo spettacolo non è quella esclusivamente femminile su cui si basano i luoghi comuni più corrivi contro le donne, la competizione non è tra donne rivali, ma quella di una volontà comune a uomini e donne di apparire i migliori e di conformarsi al modello dominante, qualunque esso sia. La competizione non è dunque strumento per l'affermazione di un io, magari ipertrofico, quanto la volontà di cancellare se stessi verso un'adesione totale all'uniformazione, universale e unica. La traduzione coreografica di questa competizione uniformante è sorprendente perché Sagna impiega i suoi danzatori (le sue danzatrici) a tutto campo i danzatori (le danzatrici) danzano, cantano, recitano, si vestono (e si spogliano). La danza diventa il sostrato sul quale si innervano le idiosincrasie dei quattro personaggi, chiamati in scena (con il nome dell'interprete e non del personaggio) da una mamma/coreografa severa ed esigente che li istiga più che invitarli alla gara, alla lotta, al gioco, allo scontro fisico, tradotti e alleggeriti dalla forma danza ma, anche, proprio per questo, traslati nel simbolo e dunque più assoluti e incontrovertibili. Come altrove nelle coreografie di Caterina Sagna anche qui gli uomini vestono abiti femminili, non come emulazione del femminino né come rovesciamento dei classici ruoli sessuati, anzi quegli abiti femminili (camicetta e gonna lunga, fluente) esaltano l'artificiosità della distinzione sessuale data dall'abito e quindi l'artificiosità di qualunque conformarsi a un'identità sessuata (prima ancora che sessuale) come spiega Sagna stessa nelle note di regia: l’abito conterrà se stesso e tutte le sue possibili trasformazioni: maschera che si indossa non per essere irriconoscibili ma per essere riconosciute. Il vestito non è cosa che debba adattarcisi, più di quanto si debba, noialtre, adattarci ad esso, e calzargli a pennello. Il vestito è un testo, è la sola e unica sorella. Per capire la maniera efficace con cui questa spiegazione trova una traduzione coreutica si deve assistere allo spettacolo, mai come in questi casi le parole sono inadeguate a rendere il senso di un'operazione che agisce contemporaneamente su più livelli, cognitivo, emotivo, estetico-percettivo, antropologico, meta-teatrale, e naturalmente, coreutico. Nel continuo competere dei personaggi/ballerini tutto diventa coreografia: un movimento sbagliato, un'esitazione, un cambio d'abito... Sagna chiede ai suoi interpreti di cantare, recitare (filastrocche all'inizio ingenue che tradiscono presto una vocazione sadica o erotomane) di mettere a disposizione il proprio corpo (ora ipervestito, con i cambi di costume in scena, ora quasi nudo, con la sola biancheria intima) per una ricerca che trasfigura la danza nel teatro e viceversa. Così dinanzi a momenti squisitamente coreutici (nei quali Sagna dimostra l'avanzatissimo livello della sua ricerca coreografica, dove la danza scardina movimenti e figure, allestendo partiture coreutiche complesse al servizio del discorso teatrale, senza soluzione di continuità tra danza e movimento scenico, chiedendo ai suoi interpreti una notevole capacità fisica pur mantenendo la leggerezza del muoversi danzando (quasi un rituale di corteggiamento, di esplorazione dei corpi, di lotta verso l'altro/a), si alternano a momenti di teatro: c'è chi costringe i movimenti altrui con l'imposizione delle mani, chi, per spirito di emulazione, segue i movimenti anche di chi è pervaso da pulsioni sessuali: splendido Alessandro Bernardeschi, che ne saggia tutti gli approcci dall'autoerotismo alla fellatio, dalla copula convulsa al semplice contatto fisico, approdando in questo delirio sessual-panico a quel corpo interdetto dall'educazione puritana compresi i divieti non strettamente sessuali, come le dita nel naso, o il toccare parti del corpo per un piacere tattile non necessariamente sessuale. Chi invece viene colto da crisi afasiche (la bravissima Elisa Cuppini che cerca di iniziare un discorso senza mai riuscirci, padroneggiando l'espressione del viso senza mai proferire parola). Il tutto avviene sotto lo sguardo ora compiaciuto ora indifferente della Mamma/coreografa (Caterina Sagna, sempre in scena e anche lei pervasa a tratti dalla danza quando la musica le fa perdere il controllo ) che scende addirittura in platea, fumando una sigaretta, per assistere al risultato di cotanta educazione. Molte delle coreografie sono eseguite senza musica solo col ritmo dell'immancabile bastone che accompagna Caterina o del rumore incalzante dei corpi danzanti, ora invece sono sostenute dalle musiche (riarrangiate in chiave cheap) di alcune serie tv che sono entrate nel nostro immaginario collettivo, da Charlies Angels a Attenti a quei due fino ala trasformazione finale dove, sulle note della sigla di Dinasty, le quattro sorelle si dispongono a una passerella dopo che la mamma/ coreografa le ha truccate e pettinate facendo loro omaggio di un nuovo vestito che le danzatrici e i danzatori indossano mentre sul viso portano una calza di nylon che ne cancella i connotati. L'individualità è totalmente cancellata da un uniformarsi che ha del grottesco perché, come ricorda ancora Sagna nelle note di regia l’uniformità è una categoria perversa della difformità, e l’uniformità stessa, se perseguita con ostinazione, approda a un’epidermica deformità. Una immagine precisa e impietosamente divertita della società contemporanea drogata di cliché (televisivi) e di una smania a un uniformarsi vuoto e autoreferenziale. Sorelline è uno spettacolo perfetto dove gli acuti intenti programmatici trovano un felice riscontro nell'esecuzione e dove il pubblico, coinvolto dall'apparente tono leggero e ludico della messinscena, in realtà (auto)ironico ma mai autoindulgente, ride, quasi inconsapevole, di se stesso. Magnifici i danzatori e le danzatrici in stato di grazia, una grazia che emana direttamente dall'intelligenza coreografica e umana di Caterina Sagna che ci regala momenti indimenticabili tanto che dopo aver visto un suo spettacolo non si può fare a meno di aspettare ansiosamente di assistere al prossimo. Roma, Teatro Palladium 4 aprile 2009
Visto il
al Palladium di Roma (RM)