Prosa
SOTTO VUOTO SPINTO

Sotto il bandito niente...

Sotto il bandito niente...

Nove ragazze vestite come scolare in divisa fascista entrano in scena eseguendo esercizi di ginnastica ritmica con i cerchi olimpici decoubertiniani, e sono movimenti dominati dal tono declamatorio, stentoreo e retorico che le accompagna ("Io credo...").

Ma c'è poco tempo per soffermarsi su di loro, perché una fin troppo moderna forma di nichilismo sta per invadere tutto: è il branco idiota, sono quattro amici (diciamo così) con nomi come Loris e Spiga, che in una provincia del profondo nord-est, nell'ambientazione che l'autore individua come sagra di Pezzan, a degna conclusione di una serata più idiota di loro, violenta due ragazze, una delle quali viene anche ammazzata quasi per sbaglio, ma è un gesto dal quale scaturisce solo un gusto necrofilo, benché inizialmente inconsapevole.

Con un chiaro richiamo della regia, costoro replicano in una versione ipermoderna la vita da Drughi di Alex DeLarge&soci, ovvero quel capolavoro che fu Arancia meccanica, romanzo del 1962 di Anthony Burgess e soprattutto trasposizione cinematografica di Stanley Kubrick: i loro anfibi ed una maschera sul volto li ricordano subito, ma soprattutto visivamente quei pantaloni a scacchi rievocano l’uso vistoso ed optical del black&white del pavimento della casa in cui Alex guidò i suoi prodi ad un'aggressione fisica in cui, però, vi era in nuce quantomeno la profezia di una una violenza "estetizzante", mentre questa proposta all'Elicantropo, è solo la fotografia necessaria della moderna, squallida violenza da buco nero, da sotto vuoto cerebrale spinto. Una scarsità di giustificazioni cui fa da contraltare unico, forse, la favola raccontata dalla Maestra nel finale ("C'era una volta un Re..."), nella quale il Re è soltanto colui che cercò di sottrarre ai giovani l'unica cosa che avevano più di lui: il futuro.

Con la solita, abile mano, Carlo Cerciello conduce i suoi giovani attori (su tutti, ancora una volta un ottimo Raffaele Ausiello), in un terreno che è loro congeniale, perché probabilmente parla di un mondo la cui crudezza spesso scabrosa oggi è diventata comune da osservare guardandosi intorno, e loro rispondono con una certa sicurezza, con buoni movimenti ed alcuni meccanismi d'incastro precisi, anche se non frequenti, trattandosi soprattutto di monologhi.

La narrazione, infatti, sebbene scorra su un simile filo, è affidata ad alcuni testi di autori anch'essi giovani, il cui linguaggio è appunto estremamente realistico, tanto da indurre necessariamente ad alcune domande di inclinazione sociologica che lasciamo volentieri alla coscienza di ognuno.

Le storie, dunque: c'è il videochattista violentato dopo un incontro “al buio”, a sorpresa (rivelatosi forse un po' troppo, a sorpresa...), il quale poi sceglierà come nick successivo "orfanostuprato"; c'è l'adolescente che vive la verità della sua relazione più in modo virtuale attraverso Facebook, che reale ("Dopo 10 anni, da fidanzata a single senza passare per relazione complicata...?!?") e che prepara la sua vendetta “reale” con afflato perfino poetico ("La lama di questo coltello raggiungerà il suo cuore come non ho fatto io..."); c'è il serial killer di prostitute che provvede anche poi a farle a pezzi (“Tanto ormai è un corpo inanimato..."), con la classica convinzione di ripulire il mondo, e punte di razzismo altrettanto classiche per le “negre grasse”; c'è la zotica (risparmiamoci i sinonimi vernacolari) di estrazione-vicolo dei Quartieri che va a Roma per sperare di presentare un festival dal nome che dice tutto (Napoli Pop Music), e per arrivarci passa per tutti i letti da cui sospetta la possibilità di un qualunque tipo di favore, fino a risultare perfino a quell'ambiente (!) una "macchietta della sagra del vino" che tuttavia fino in fondo riesce a considerarsi al di sopra della media del suo stesso squallore ("A loro, del vicolo..."); c'è l'amica che trasforma l'altra in trasgressiva, portandola fino al rango invero ammirevole di Reginetta del Peep Show, per poi rivelarle di essere stata violentata da piccola, e così il sapore di quella sua illusoria e scadentissima libertà/superiorità di femmina esercitata a colpi di sesso, si rivela in tutta la sua desolazione; e c'è la povera crista il cui quasi-marito non si presenta all'altare, motivo per cui lei per sei anni si chiude in casa, anzi proprio nella sua stanza, e mangia: una classica fame abominevole da compensazione, che contrapposta al salutismo dei genitori, è l'unica cosa a tenerla ancora viva. Anzi, vegeta. Anzi no, c'è dell'altro: chatta. Mangia e chatta, sempre con la massima acredine possibile, da manuale, e lo fa perfino con una ragazzina di 13 anni, simulando con cattiveria un'altra identità, fino a vederla suicidarsi in diretta-webcam. Ma lei ha ancora e solo fame.

Ecco, se un limite c'è, in queste storie, lo si trova facilmente in una certa riproposizione di schemi situazionali e psicologici alquanto scontati, finché alla fine viene da riflettere sul fatto che, al di là della perizia della scrittura, e dell'accento sullo sfascismo da italietta giustamente e ben visualizzato, questa non sia invece, e purtroppo, proprio una precisa esigenza dettata dal ritrovarci in un'epoca in cui spesso le espressioni prevalenti che si trovano in natura, sono di un livello talmente basso che uno degli strumenti più efficaci per la loro resa narrativa deve venire soprattutto dal rimanere ad un altrettanto basso livello di ricerca di senso e di sofisticazione.

Visto il 31-03-2011
al Elicantropo di Napoli (NA)