Lirica
STIFFELIO

La parola che illumina

La parola che illumina

La prima di Stiffelio (Trieste 1850) non fu un fiasco, eppure la “scabrosità” dell’argomento e i problemi con la censura austriaca convinsero Verdi a trarne una seconda versione assai modificata con altro titolo (Aroldo, Rimini 1857). Recentemente l’originale è stato ricostruito grazie a due copie sopravvissute e approda in questa veste per la prima volta in laguna in un nuovo allestimento a trent'anni dallo spettacolo di Pier Luigi Pizzi. Stiffelio è il primo lavoro del compositore improntato a quel realismo borghese che porterà in un breve volgere di tempo alla trilogia popolare ed è la sua prima opera con ambientazione contemporanea. Il protagonista, un prete protestante dibattuto fra missione spirituale e sete di vendetta nell’apprendere del tradimento della moglie, è ben analizzato, i colori orchestrali sono innovativi e la tavolozza armonica infrange i confini delle forme fino a quel momento abituali. Stiffelio, ritenuta a torto una prova inferiore, ha invece una notevole coerenza drammaturgia e una spiccata originalità: quindi partitura non vertiginosa ma fondamentale per comprendere l’evoluzione dello stile di Verdi alla fine degli “anni di galera”.

Lo spettacolo presenta una forte impronta borghese con clima claustrofobico e nord-europeo di sapore ibseniano. La scena di Guido Petzold è immersa in un buio totalizzante solo raramente interrotto dal sollevarsi per pochi istanti del muro di fondo scena. Molto efficace il lungo tavolo a cui siedono tutti all'apertura del sipario, quasi “ultima cena”; alle loro spalle una parete di spigoli e trafori geometrici che assume diversa consistenza a seconda di come viene colpita dalle luci antinaturalistiche dello stesso Petzold, fino a diventare riflesso delle vetrate colorate di una chiesa. I costumi di Judith Fischer situano l'azione nel primo Ottocento e, declinati sul nero, amplificano la cupezza dell'ambientazione. La scena è dominata da una torre-traliccio con tre fari che si innalza dal pulpito dove Stiffelio fa la sua omelia e potrebbe voler rendere l'idea di una parola illuminante nel buio con riferimento alla Trinità. La regia di Johannes Weigand non ha un'impronta particolarmente decisa e determinante e i cantanti, piuttosto statici, faticano a rendere il tumulto interiore che caratterizza i protagonisti e soprattutto i rapporti di forza tra di loro.

Daniele Rustioni, pur giovanissimo, dimostra una notevole maturità interpretativa e la capacità di rendere la tensione incalzante e il ritmo narrativo costante anche dove la regia non riesce; il suono è curato, contrastato e ben caratterizzato dagli apporti solistici significativi: corno inglese, violoncello, organo e fagotto.

Stefano Secco è uno Stiffelio vestito in modo dimesso rispetto agli altri e con una certa “atemporalità”; la voce è morbida ed estesa, prodiga di colori, il fraseggio robusto e scolpito in ogni dettaglio, la linea di canto è solida e di grande espressività. Meno riuscita la Lina di Julianna Di Giacomo: se il registro centrale è corposo, l'acuto è poco controllato e il timbro sempre piuttosto aspro. Dimitri Platanias è uno Stankar statico e poco brillante attorialmente, vocalmente avaro di sfumature. Francesco Marsiglia è un giusto Raffaele, elegante nel contegno. Simon Lim è un affascinante Jorg in abito lungo da prete e con voce suadente. Con loro Cristiano Olivieri (Federico), Sofia Koberidze (Dorotea) e il coro ottimamente preparato da Claudio Marino Moretti.

Il programma di sala ha una nuova veste con il libretto scaricabile da QR e un importante e utile apparato critico, fondamentale per la conoscenza di Stiffelio.

Visto il 24-01-2016
al La Fenice di Venezia (VE)