Lirica
STIFFELIO

QUEL COLPO DI GESSO SUL GRIGIO

QUEL COLPO DI GESSO SUL GRIGIO

La prima di Stiffelio (Trieste, 1850) non fu un fiasco, eppure la scabrosità dell’argomento e i problemi con la censura austriaca convinsero Verdi a trarne una seconda versione assai modificata (“Aroldo”, Rimini 1857). Recentemente l’originale è stato ricostruito grazie a due copie sopravvissute. Stiffelio è il primo lavoro del compositore improntato a quel realismo borghese che porterà in un breve volgere di tempo alla trilogia popolare ed è la prima opera del compositore con ambientazione contemporanea. Il protagonista, un prete protestante dibattuto fra missione spirituale e sete di vendetta nell’apprendere del tradimento della moglie, è più sfaccettato dei precedenti, i colori orchestrali sono innovativi e la tavolozza armonica infrange i confini delle forme fino a quel momento abituali. Stiffelio, ritenuta a torto una prova inferiore, ha invece una notevole coerenza drammaturgia e una spiccata originalità: quindi partitura non vertiginosa ma fondamentale per comprendere l’evoluzione dello stile di Verdi.

Il Regio di Parma ha il merito di aver riproposto Stiffelio accanto all’arcinota Aida in una stagione austera ma interessante. Il nuovo allestimento, coprodotto con l’Opéra di Monte-Carlo, si presenta con un sipario grigio chiaro chiazzato da nuvole spatolate tono su tono, tagliato da una riga bianca orizzontale che pare tracciata con il gesso: una distinzione manicheistica tra bene e male ma con un colore e un materiale assai deperibile che consentono il perdono, la reversibilità del giudizio sui comportamenti umani e dunque una osmosi tra le due categorie.
La scena di Francesco Calcagnini ha alte pareti grigio chiaro quasi prive di aperture, se non gli accessi sul palco, rimandando a interni asfittici e claustrofobici, anche nella scena del cimitero. Un ambiente di religiosità chiusa e opprimente dove appare ancora più luminosa la decisione del pastore, peraltro perfettamente in linea con il dettato evangelico. I costumi, anch’essi di Francesco Calcagnini, sono uniformemente in grigio scuro e nero, perfetti per l’epoca di inizio Ottocento e l’ambiente sociale, religioso, geografico: che meraviglia quelle scarpone di basso ceto sociale come nei dipinti di Van Gogh e cuffie e cappelli che accentuano l’uniformità degli abiti a coprire il corpo e quindi l’individualità... Solo Raffaele è tutto il tempo in arancio totale, evidentissimo (come la lettera scarlatta sul petto della protagonista del romanzo omonimo, mentre Lina solo nel finale Lina è in bianco.
La regia di Guy Montavon è essenziale ma funzionale alla storia e alla musica, con soluzioni di immediata efficacia, come la presenza del coro oltre il tavolo nel primo atto (una sorta di tribunale popolare) oppure nella rigida geometria del finale, dove campeggiano grandi libri aperti e piovono pietre che però restano a mezz’aria, senza essere scagliate e dunque senza colpire nessuno (d’altronde chi può scagliare la prima pietra?). Durante la recita spesso i protagonisti brandiscono il crocifisso, fatto questo che riempie di maggiore significato il perdono finale. Il regista, secondo noi giustamente, non impone l’attenzione su nessuno dei protagonisti, ma fa di Stiffelio un’opera corale e ambientale.

Andrea Battistoni, primo direttore ospite a Parma, raccorda perfettamente e con molta grinta buca e palco con gesto ampio e sicuro; il suono è curato, reso con affascinanti contrasti e apporti solistici significativi: corno inglese, violoncello e fagotto hanno uno spazio evidente, come l’apporto dell’organo di Simone Savina. Indimenticabile nella sinfonia l’assolo di tromba che parla di cupezze nordiche, di asfittica religiosità che governa la vita sociale: ma tutta l’ouverture rende evidente come la partitura sia cerniera tra il primo e il secondo Verdi. Battistoni assicura tempi scattanti, sgranati con precisione, che si serrano in modo incalzante, al punto che gli intervalli quasi disturbano, tanta è la compattezza che il direttore ottiene dall’orchestra di casa.

Ji Myung Hoon è uno Stiffelio giovane e passionale, del quale si sono apprezzate la morbidezza della voce, la luminosità del timbro e la cura nella pronuncia, seppur prodigo di colori. La Lina di Alisa Zinovjeva è corretta nell’esecuzione e giustamente lamentosa nel timbro, per cui le si perdona facilmente qualche asprezza. Hayato Kamie è uno Stankar impetuoso nel temperamento attoriale e vocalmente adeguato anche nel registro alto ma non brillante particolarmente per un fraseggio non impeccabile e il timbro. Molto bravo Gabriele Mangione, il cui Raffaele mostra il carattere spavaldo del seduttore, senza temere gli acuti. Con loro George Andguladze (Jorg), Cosimo Vassallo (Federico), Lorelay Solis (Dorotea) e il coro del Regio ottimamente preparato da Martino Faggiani.

Pubblico internazionale, soprattutto dal lontano Oriente; vivo successo con molti applausi a scena aperta e nel finale. Nel programma di sala vengono riproposti i saggi di Julian Budden e Giovanni Morelli, fondamentali per la conoscenza di Stiffelio.

Visto il
al Regio di Parma (PR)