Che ai giorni nostri gli spettacoli sulla guerra siano una rarità è un dato di fatto. I registi li evitano forse perché non pensano di potervi scoprire qualcosa di nuovo, mentre i drammaturghi di svariate nuove correnti, senza dubbio, prediligono soggetti e personaggi di altro tipo. O forse, più banalmente, la scelta potrebbe essere di carattere economico. Si presenta assai difficile (e poco redditizio) il compito di rapire lo spettatore con un simile tema, visto che al teatro oggi si va più per svago che per pensare ai destini della patria. Per questo l'ultimo lavoro di Michele Ciardulli e Andrea Brunello della compagnia trentina Arditodesìo, Storie di uomini – un anno sull'Altipiano può essere considerata una produzione che va controcorrente rispetto alla consuetudine teatrale di oggi.
Rappresentato sotto forma di un monologo, riporta la testimonianza di Emilo Lussu, l'autore del memorabile romanzo sulla prima guerra mondiale. La narrazione è semplice, chiara e totalmente priva di pathos o di inutili moralismi, perché, come quasi sempre accade a chi l'ha vissuta sulla propria pelle, la guerra non viene mai vista come un continuo atto eroico, ma come un faticoso lavoro quotidiano da raccontare con tranquillità, giudizio e, a tratti, con ironia…
Lo spettacolo colpisce prima di tutto per i suoi dettagli sobri, ma, nello stesso tempo, scelti con cura, che gravitano verso trasparenti e toccanti metafore sceniche. Sottolineato dalla sincerità interpretativa di A. Brunello, che fino all'ultimo mantiene l'intonazione di una confessione aperta, con il passare del tempo, la narrazione acquisisce toni sempre più severi fino a raggiungere il culmine dell'apparentemente celata tragicità. I pochi elementi di scena comuovono con la loro semplicità e la pregnanza poetica, risvegliando la fantasia del pubblico. La cassa di legno, ricoperta di un funebre velo nero, immediatamente viene associata al Monte Fiore sul quale hanno trovato pace centinaia di soldati italiani usati come carne da cannone. Lo stesso velo nel corso dello spettacolo si trasforma in un sudario che avvolge la salma di un combattente immaginario, mentre la cassa si rivela un contenitore di terra che l'attore, nell'ultima scena, si butta addosso creando in tal modo l'atmosfera di un vero combattimento. "La guerra non sa di sangue, ma di fango e cognac" afferma Lussu. Ed ecco un rozzo tabernacolo da campo a nascondere non più il sangue di Cristo, ma una bottiglia di liquore, che, in certe circostanze, viene molto più in aiuto di ogni preghiera…
..."Siamo ancora capaci, noi uomini e donne del ventunesimo secolo, di emozionarci per un ideale?" viene chiesto al pubblico nell'opuscolo dello spettacolo.
In realtà, nella tragica vicenda - che alcuni continuano a chiamare "grande guerra" o "l'ultima guerra combattuta dagli uomini" - è difficile intravvedere qualcosa che debba essere considerato un valore supremo al di là di ogni cosa. I personaggi che conosciamo sull’Altipiano danno il meglio di sé: sono pieni di dignità, di coraggio, patiscono e obbediscono agli ordini dei superiori. Ma più che combattere per gli ideali, il loro triste destino è quello di essere in balia degli interessi altrui. Questa è la loro tragedia e anche il motivo perché se da un lato ci commuoviamo, dall'altro ci rendiamo perfettamente conto che la loro morte assolutamente insensata non potrà mai servire da esempio per le generazioni future.
Uno spettacolo che non lascia indifferenti, che colpisce, emoziona e spinge a pensare, ma forse con un filo conduttore diverso da quello che si sono prefissati i suoi creatori. Lo spettatore difficilmente rifletterà sugli ideali, ma certamente lo farà sul valore della vita umana.