La recensione di Francesco Rapaccioni
Macerata, teatro Lauro Rossi, “Studio su Medea – capitoli I, II, III” regia di Antonio Latella
L'AMORE E' UNA POSSIBILITA' CHE SI SOTTRAE A OGNI SPIEGAZIONE E A OGNI GIUSTIFICAZIONE
Il senso di Medea va ricercato indietro nel tempo e lontano nello spazio e, come molte cose del mito, cambia a seconda della prospettiva di chi indaga. Permane però sempre la fascinazione erotica e amorosa, un amore che nasce dal tradimento e dalla violenza, una violenza verbale e gestuale che involve anche i sentimenti: la vendetta, per certi aspetti incomprensibile, è il bisogno di sfuggire a quella realtà usando la stessa arma, la violenza appunto, amplificata all'ennesima potenza.
Medea è una maga, la straniera che, rifiutata, si scaglia contro la cultura egemone. “ME, anima in pena. Chi più ama più ferisce. IO vengo colpita e colpita ancora. IO consumata, sfruttata, usata”. Invero l'attenzione di Latella è verso Medea- simbolo, più che verso Medea-personaggio.
La combinazione dei tre capitoli in una sola serata è un approccio complesso ed affascinante ed è imperdibile.
Nel capitolo I, Medea e Giasone, si assiste all'incontro-scontro tra due corpi e alla loro storia come ci è stata tramandata dalla mitologia e dalla letteratura, una danza di due corpi che si cercano e si annullano nell'altro. Gli eventi sono rituali, i gesti naturali. All'inizio una marcia nuziale con la musica che via via viene distorta ed elettronica; tra gli applausi dei convitati Medea va all'altare tirando per il membro Giasone che le sussurra parole all'orecchio, parole che l'hanno convinta, che la divertono, parole che non conosceremo. Con dadi e chiavi inglesi gli sposi costruiscono il talamo nuziale, montano e smontano di continuo un letto che, smontato, si trasforma in ali di aliante, mezzaluna da cucina, timone di nave, mitragliatrice, rasaerba e altro ancora. Medea non è fragile né debole, né succube, ma è una guerriera pronta a tutto. Quando i giochi adolescenziali finiscono l'uomo si masturba e la donna si autopunisce picchiandosi. Pochi elementi scenici, letti che diventano gabbia, rifugio, altalena, alcova, luogo della massima libertà e luogo della più profonda prigionia. Pochi oggetti e poche parole, la parola è poca cosa ma per questo diventa più forte, l'alfabeto greco, i dieci comandamenti, le lettere per lei iniziali di stilisti e per lui iniziali di città in guerra, un modo diverso di intendere il mondo, mentre Medea balla la danza del ventre e lui con elmetto da guerriero canta una canzone di oggi. Gli approcci di Medea sono nell'indifferenza di Giasone, già preso da Creusa. E qui ci sta benissimo quello splendido prologo di Euripide “Oh, non avessero mai le navi di Argo viaggiato attraverso le azzurre Simplegadi..”, la lamentazione per ciò che è avvenuto.
Nel capitolo II, Medea e figli, il corpo della donna amata-amante si fa corpo-madre e matricida. Una madre cagna coi cuccioli, che li nutre dal suo corpo e li protegge con la maschera; una madre assassina appellata dai figli nei modi peggiori, lei che grazie a loro si sente Dio; lei che sputa addosso a loro l'acqua che pulisce, purifica. Ora scimmie alla catena, ora bertucce che saltano, ora cani famelici, ora le urla di dolore del parto, ora il piacere del sesso di fonde con il pianto. La donna ha schiacciato l'uomo, si è ribellata, ma deve ancora combattere contro altri maschi, i figli, serpi cresciute nel seno materno: succhiano famelici e violenti le mammelle della madre, poi si azzuffano per la ciotola-elmetto del padre, animali con esigenze da animali, uccidere per mangiare e sopravvivere. I figli diventano come il padre, braccio teso e passo dell'oca, guerreggiano e si divertono con passatempi che escludono la donna, con l'elmetto che diviene pallone.
Nel capitolo III, Medea Dea, Medea dà la vita e la toglie, il corpo si spurga, elimina il sangue e la carne, li annulla per andare verso l'ascesi e divenire dea, Me-Dea. Il modulo-maschera è ripetuto all'infinito in questo “dopo” eternato dal continuo rintocco delle campane. Nell'ampio spazio vuoto della mente, tra i rimorsi e le ferite di tutta una vita, Medea vaga in un cimitero di maschere da infante che sembra un cimitero di guerra, come fosse una distesa di bianche croci nel tappeto erboso del camposanto. I figli coi burattini in mano camminano all'unisono narrando la storia, corpo e non-corpo, presenze e assenze, astratto e concreto, anima e corpo. Al centro della scena un drappo bianco, cordone ombelicale mai reciso, legame tra il cielo e la terra. Un'immagine iconica di struggente forza espressiva, Medea sospesa tra cielo e terra con le marionette dei figli. Medea si riappropria dei figli, cullandoli, sospesa in aria, mentre Giasone, che sembra Pinkerton, raccoglie le maschere dei morti in due sacchi per l'immondizia su un motivetto anni Quaranta, “vivere senza malinconia, vivere senza più gelosia”. Poi le luci si spengono. E tutto può ricominciare, nelle case, nelle famiglie, nella vita, nella mente.
Il regista conferma la propria cifra stilistica attraverso una distanza rispetto al percorso precedente, fondato sui classici e sulle loro parole, illuminate da sfumature infinite. Le parole qui sono poche, quasi nessuna: viene operata una decostruzione del linguaggio, un alfabeto che cerca il recupero di una lingua nell'impossibilità della comprensione; il detto diventa suono, arcaismo, musica. Comunicazione primordiale. Questa Medea non vive di vere parole concatenate in frasi, ma di rari e criptici indizi, nenie in tedesco, italiano, greco antico senza metrica. La voce si declina nelle forme dell'urlo, il respiro è costretto nel rantolo e nell'affanno che accompagnano una performance fisica di impressionante violenza espressiva, legata alla faticosa concretezza del corpo e dei suoi limiti terreni (i “chili” descritti in modo sublime nell'inarrivabile “Monologo del non so” di Mariangela Gualtieri), capace però di sublimarsi e di ascendere letteralmente ad una dimensione (interiore) superiore, accompagnato dal progressivo quietarsi ed interiorizzarsi dello spettacolo.
Il presupposto di partenza è la predominanza del primitivo, dell'arcaico, della fisicità del corpo. Il mito è ripercorso utilizzando fonti diverse da cui vengono ricavate suggestioni e tematiche a tratti apparentemente conosciute (lo scontro fra i sessi, lo scontro genitori-figli, la guerra) ma destinate a sorprendenti deviazioni, al servizio di invenzioni linguistiche sconvolgenti o geniali.
Nicole Kehrberger è strepitosa, barbarica, ferina, sanguigna, corporale, ancestrale, dea e animale al tempo stesso, una Medea che urla, impreca, scaccia Giasone, invoca sua madre e da vittima, in un crescendo emotivo e animale, diventa donna e carnefice. Con lei Michele Andrei, Emilio Vacca e Giuseppe Lanino. Sul palcoscenico la tensione è continua, una tensione che svuota di significato mitologico e storico una tragedia abusata, ma che nell'intimo riesce ancora a travolgere, niente è tenuto dentro, tutto è esplicito, come quei corpi nudi dall'inizio alla fine. Corpi che mostrano lo sforzo primitivo del gioco, dell'amore, del dolore, della rabbia e la loro nudità non è mai gratuita o fittizia, quanto piuttosto funzionale al discorso registico. Infatti è solo il corpo che conta, una nudità non solo reale ma metaforica, perchè sopravvive solo ciò che non è superfluo, la carne, il sangue, il sudore. E il dolore. Fino alla pacificazione, fino a quando tutto si placa, nella mente e nel cuore.
Alla fine Medea si muove tra ciò che resta dopo la distruzione di una famiglia; il suo innalzarsi a livello di un Dio rende di riflesso partecipi di una divergenza, un cortocircuito che separa tutto ciò che appartiene al divino dalle vicende di ogni giorno.
La musiche sono azzeccate, curate da Franco Visioli, le potenti luci di Giorgio Cervesi Ripa creano l'atmosfera. L'elaborazione drammaturgica è di Federico Bellini.
L'amore è una possibilità che si sottrae a ogni spiegazione e a ogni giustificazione, altrimenti sarebbe parodia o teatro. L'amore è crudele. Si esce dal teatro con lo stomaco chiuso, ma con il cervello aperto.
Visto a Macerata, teatro Lauro Rossi, il 16 febbraio 2007
Francesco Rapaccioni
Visto il
al
Nuovo
di Napoli
(NA)