Prosa
SUGNU O NON SUGNU - UNA NOTTE INSONNE IN CASA SHAKESPEARE

Sogno di uno Shakespeare di mezza nottata

Sogno di uno Shakespeare di mezza nottata

Come coltivare gelsomini, zagare, persino fichi d’india… quando ci sono 6 dita di ghiaccio sul fiume? Con il ‘frizzante’ clima inglese l’operazione potrebbe rivelarsi forse più ardua che cavar sangue da una rapa. Ma ‘qualche’ grado sotto la consueta temperatura non deve aver spaventato Michelangelo Florio, messinese in fuga per l’Europa per scampare alla tenaglia morbosa dell’Inquisizione, che nel ‘500 fece più teste di quante non potè, forse, la peste. Approdato in terra britannica, Michelangelo mette in atto una delle sue prime trovate geniali: cambiare nome. Per esigenze di sopravvivenza, certo, ma sfoggiando doti artistiche non comuni: fa suo, con dovuta traduzione s’intende, il nome della mamma. E quella poco nota, seppur nobile, Guglielma Scrollalanza diventa William Shakespeare. Sugnu o non sugnu? Sugnu, sugnu.

Il mistero che ancora aleggia sulle origini del celebre drammaturgo consente di dar credito a questa, come ad altre storie e leggende che cercano di far luce su una questione che è essa stessa un ‘mito’ letterario su cui disquisire. Tuttavia, lasciando il quesito a inizio storia, appare interessante affrontare un altro tema ben più ‘succulento’: il rapporto di coppia tra Will e Anne. Due caratteri simili, in barba alla provenienza geografica: il siculo estroso, esuberante e fumantino, un bambinone sostanzialmente. Contrapposto, e complementare, a lei. Fiera, gelosa, rossa, ma tanto innamorata da vivere la contraddizione tipica della donna che affianca il genio: sostenerlo, incoraggiarlo ma tenerlo anche con i piedi per terra, (provare a) afferrarlo dalla collottola per evitare che si ‘dia troppo’, in pasto all’arte e agli ammiratori. E così, nel corso di una notte insonne - talmente intensa da sembrare un anno intero - i due si fanno compagnia, raccontandosi e raccontando le opere dello scrittore, oltre ai momenti salienti della vita di quell’artista che, ad un certo punto, decide di mollare tutto e dedicarsi agli affitti da riscuotere e al giardinaggio.

Francesco Foti e Francesca Vitale sono i Will e Anne di questa storia. Se del primo già conoscevamo le innegabili doti comiche e attoriali, qui riconfermate oltre a capacità canore e ballerine certamente migliorabili, della seconda scopriamo, oltre alla performance in scena, la validità della scrittura: autrice del testo rappresentato, la Vitale da corpo ad un’inglese anomala per gli standard a cui siamo abituati. Apparentemente fredda e impassibile, è in realtà un fuoco di passione e sentimento tanto che, in diversi momenti, non si riesce tanto a distinguere la Hathaway da uno dei tanti personaggi femminili tratteggiati dal marito. Con un’espressività precisa ma non esagerata, e un accento british molto credibile, la Vitale risveglia l’animo della donna e, al contempo, tiene vivo e tiene testa ad uno Shakespeare fin troppo esagitato, muovendosi disinvolta anche quando nella narrazione compare (più volte) un terzo personaggio: un finto critico letterario che s’intrufola di continuo nella recita spiegando quale citazione si sta facendo in un dato istante. Diversi i piani del racconto, e forse per lo spettatore districarsi tra tutti non è facile, ma avvincente e divertente è nel complesso il racconto. Curioso il ricorso a musiche ‘moderne’ e ad una ‘versatile’ confezione di pop corn, originale espediente che consente di giocare con suoni e rumori, e simulare anche il correre del cane Granchio che sfugge e si fa desiderare, un po’ come il suo padrone.
 

Visto il 19-03-2016
al Libero di Milano (MI)