Extra
SVENIMENTI, UN VAUDEVILLE

Burattini buffi ma eterni

Burattini buffi ma eterni

Dopo il debutto infelice de “Il Gabbiano”, una delle opere oggi più note al grande pubblico, Anton Cechov giurò che non avrebbe mai più scritto per il teatro: per un essere un dramma, la gente rideva laddove da copione non avrebbe dovuto, e pure la critica lo stroncò. Era il 1896.
Risale invece a poco più di dieci anni prima la stesura di tre degli atti unici - “La domanda di matrimonio”, “L’Orso” e “I danni del tabacco” - definiti dallo stesso autore “vaudeville volgarucci e noiosetti”, ma portati in scena con un successo talmente clamoroso da superare ogni più intima aspettativa. Questo, almeno, è quanto riportano le cronache dell’epoca. Ma il celebre drammaturgo russo sarebbe stato altrettanto stupito se avesse assistito alla reazione divertita del pubblico di un secolo dopo? O, per parafrasare il titolo, sarebbe ‘svenuto’ dalla sorpresa?

Chi può dirlo. Possiamo solo immaginare la reazione di Cechov, di fronte ad una manifestazione tanto calorosa. Quello che invece gli spettatori - o perlomeno i conoscitori superficialmente informati dell’opera checoviana - potrebbero non immaginare è che si possa sorridere, e poi ridere di gusto, assistendo alla trasposizione di racconti che mettono in mostra le fragilità degli uomini, comici a loro insaputa, però così credibili e realistici, immersi in una quotidianità che è poi, anche nostra. Ma non è tutto. Se anche lo spettacolo si fosse fermato ai tre episodi - graziosissimi come lo sono i personaggi, pur con tutti i loro tic e meschinità - sarebbe stato il diversivo piacevole di una serata. L’aspetto invece che arricchisce la pièce, rendendola particolare e sofisticata, è la scelta di intrecciare gli atti unici con le lettere di Olga Knipper - attrice nonché moglie di Checov - scritte anche dopo la morte dell’autore, in un ideale prosieguo del dialogo ‘singhiozzante’ con il consorte, oltre che con frammenti di altre opere, come “Il giardino dei ciliegi”, e riflessioni dello scrittore sul modo di lavorare di Stanislavskij alle sue opere, seguendo un approccio che di lì a qualche anno sarebbe stato formalizzato nel famoso metodo di recitazione.

L’approfondimento psicologico e la ricerca di affinità tra il mondo interiore del personaggio e quello dell’attore è qui reso in modo impeccabile da “Le belle bandiere”: con una delicata eleganza, i tre interpreti illustrano bene quegli ‘svenimenti’ che, anche solo metaforicamente, caratterizzano tutti, al di là dei costumi e del tempo che passa. Le urla, i pianti di gioia o di dolore, la perdita di controllo e le frequenti crisi emotive di cui, per ragioni anche discutibili, siamo portatori sani sono qui le reazioni ultime a questioni tutto sommato banali, di fronte al grande mistero della vita: una malriuscita proposta di matrimonio, la mancata restituzione di un debito, le tesi sostenute in una paradossale conferenza scientifica sui danni del fumo. Grotteschi, volutamente eccessivi, caparbiamente caricaturali, ma indiscutibilmente efficaci nelle rispettive recite Colella e Sgrosso. Superbamente versatile e decisa quella di Elena Bucci, che cura anche la regia dell’opera.

Visto il 24-03-2015
al Menotti di Milano (MI)