Al Festival di Spoleto arriva un vero e raro incanto: il teatro nō espresso ad un livello altissimo grazie alla Scuola Hōshō, nella suggestione dei falò accesi.
Al Festival di Spoleto arriva un vero e raro incanto: il teatro nō espresso ad un livello altissimo grazie alla scuola Hōshō, nella suggestione dei falò accesi nel chiostro di San Nicolò.
Un pubblico vario, non solo lo yamatologo e l’appassionato del genere, affolla uno dei siti più belli di Spoleto per immergersi nelle pur arcane atmosfere del nō e del kyōgen, due espressioni teatrali giapponesi risalenti a sette secoli or sono. Le performance messe in scena sono tre, nelle arti specifiche del Kyōgen, del Maibayashi e del Nō.
Hōshō è la seconda più grande scuola del settore in patria, e possiede il principale teatro Noh a Bunkyō, nei pressi del Tokyo Dome. Oltre a Tokyo, è stata famosa soprattutto nella provincia di Kaga, dove i signori feudali erano suoi ardenti mecenati, e a Sado, Kurume, Nagoya e Kyoto. Il suo stile può definirsi più introspettivo rispetto alle altre scuole, anche grazie ad una coreografia più essenziale e astratta, meno intelligibile, e all’utilizzo di una scala musicale più complessa nelle canzoni, chiamata Utai, nella quale compaiono molte note diverse e melodie spesso sia ascendenti, sia discendenti.
Sanbasō, Takasago, Yoroboshi
I tre spettacoli si rifanno dunque a tradizioni davvero antiche: il primo è Sanbasō, un vero rituale sacro, proveniente dall’opera Okina; il maestro di kyōgen Norihide Yamamoto è impegnato in una danza piena di grazia eseguita con i sonagli, per chiedere agli Dei prosperità nell’atto del raccolto mentre esegue il gesto della semina dei “cinque cereali”.
Takasago, eseguito da Yūsuke Kanai, narra invece vicende divine del Tempio di Sumiyoshi, il luogo in cui lo maibayashi nacque per la celebrazione della pace nel mondo, fino ad arrivare ad un classico dramma del repertorio del nō: Yoroboshi, interpretato dal XX caposcuola della scuola HŌSHŌ Kazufusa Hōshō. E’ la storia di Takayasu e del figlio cieco Shuntokumaru, bandito dalla casa per colpa di false accuse, che si ritrovano dopo essersi separati per anni. Il suo nome da mendicante errante è divenuto appunto Yoroboshi (“il monaco debole”) in quanto claudicante.
Il senso di colpa porta Takayasu a cercare il figlio in ogni dove, finché durante un atto di penitenza e di offerte nel Tempio Shitenoji si ritrovano, ed egli sceglie il calar della sera per la rivelazione. Questo atto viene compiuto attraverso il jissokan compiuto da Yoroboshi, una meditazione che ha per scopo l’illuminazione, e con sequenza poetica e commovente egli quindi ritorna con la mente alla terra di Namba da cui proviene, fino al delirio e al mancamento, per arrivare poi alla rivelazione. Nonostante la vergogna per il suo stato e il tentativo di fuga, Takayasu infine lo prende per mano per riportarlo a casa.
La perfezione degli attori nel gesto, nella danza e nel canto salmodiato, così come quella dei musicisti in scena (Ryūichi Onodera Nōkan al flauto, Mitsuhiko Sumikoma Kotsuzumi al piccolo tamburo a clessidra, Rokunosuke Iijima Ōtsuzumi al grande tamburo a clessidra e Akio Mugiya Taiko al tamburo) regala dunque al Festival una splendida perla dalle antiche screziature.
Un’occasione più unica che rara, offerta al pubblico eurocentrico, per accostarsi a una ricchezza di contenuti di matrice per lui inusuale: l’assenza pressoché totale di scenografia (lo spazio è mentale, è lì che cambia…) contrapposta al magnifico splendore dei costumi tradizionali; il passato e presente dei balzi temporali (molto diversi rispetto alle abitudini aristoteliche del teatro occidentale); il valore della lentezza valorizzato al tempo dei Tokugawa e infine il predominio dell’essenza e dell’eleganza, quello di una forma di spettacolo che accanto alla ieraticità dell’atteggiamento e del rito sacro ha saputo conservare l’aspirazione all’intrattenimento popolare.