Prosa
TAKING CARE OF BABY

A proposito dell'Accademia degli Artefatti

A proposito dell'Accademia degli Artefatti

Taking care of baby  e la sua indagine riguardo le scintille  che scaturiscono dal cortocircuito tra  verità e rappresentazione della verità.

 

E' quanto mai attuale Taking care of baby, il testo ispirato ai casi di Sally Clark e Angela Cannings che nel 1993 ha rivelato a meno di quarant'anni l'inglese Dennis Kelly consacrandolo a fama internazionale. Scritto con la formula del teatro/documentario è composto di un corpus di interviste ad una madre assassina e  dalla testimonianza di coloro che ruotano intorno alla famiglia ferita. Una Medea dell'oggi fagocitata dai mass media e vomitata nel piatto del pubblico.

Donna  (Isabella Ragonese)  si racconta  a Dennis Kelly (Francesco Bonomo), regista che vuole girare un documentario di successo. La recitazione  cinematografica  invita ad indugiare persino sulle più piccole pieghe del volto ripercorrendole una per una come ad illudersi di poter leggere la verità in un solco. Intorno a questa figura segnata e fragile ruotano come in un gioco di carte una serie di personaggi intossicati ognuno a suo modo dalla tragedia. C'è  una madre (una magistrale Francesca Mazza)  disposta a tutto pur di ricostruirsi e costruirsi  una vita, togliere la figlia di prigione e darsi un tono in società. C'è uno psichiatra (Pieraldo Girotto) che deve la sua fortuna alla scoperta (o invenzione?) di una malattia mentale brevettata  sul caso della McAuliffe. C'è un marito (Matteo Angius) annichilito nel tentativo di ricostruirsi una vita e proteggersi dal pubblico. C'è un giornalista (Matteo Angius) burattino di superficialità, scoop e  sesso.

Ad essere immortalato è un lavoro in divenire dove il contenuto del racconto è integrato con le modalità di esplicitarlo e  ciò che conta è tutto nella percezione ottenuta sfruttando la distanza insita nella pellicola  video. Una distanza, quest'ultima, che è a sua volta messa in crisi da riprese che avvengono in quel momento lì, girate alle spalle dello spettatore e sul palco. La pièce come dispositivo capace di fornire dei parametri di osservazione solo apparentemente oggettivi e sempre adatti a costruire dei meta-commenti su una vicenda tragica nei confronti della quale  ogni spettatore può prendere le distanze o sentirsi coinvolto. Le testimonianze dei personaggi  possono infatti farci imboccare la via dell'empatia o del più confortevole distacco ma mai dell'apatia.  

Davanti a dialoghi che vertono  su interviste rese di fronte ad una telecamera e ad un giornalista è perciò inutile che lo spettatore si ribelli pensando di potersene stare comodo senza decidere da che parte stare perché qui è della vita che si parla come ben sa Fabrizio Arcuri, attento regista che fa scandagliare ai membri dalla sua ottima compagnia i diversi momenti di una narrazione che è un'esplosione di frammenti di molteplici verità da ricomporre, isolati in un concatenarsi di scene che costituiscono tanti punti di vista quanti sono i personaggi che si vengono a mostrare nello spazio incupito della sala Fassbinder, appena appannati  dalla scaletta delle interviste.

 

Visto il 03-12-2013