Firenze, teatro Comunale, “Tancredi” di Gioacchino Rossini
TANCREDI METAFISICO
Tancredi, composto nel 1813, segna un mutamento di gusto nel panorama dell’opera che fece dimenticare i precedenti capolavori, poiché Rossini portò sulla scena lirica italiana nuove importanti qualità. La bellezza di Tancredi è infatti nel rappresentare una certa continuità rispetto agli stili precedenti e al tempo stesso nel contenere straordinari elementi di novità che poi il Pesarese svilupperà nelle opere successive. Perciò Tancredi, seppure composta a soli 21 anni, è già opera della maturità, musicalmente e drammaticamente, cristallizzando un momento particolare della musica, poiché fonde l’estetica neoclassica con la nascente sensibilità romantica. Infatti a momenti di indubbie ascendenze settecentesche, come lo sbarco di Tancredi, si alternano altre scene che toccano accenti di drammatica energia, come il finale primo. La storia della partitura è stata poi accompagnata da tutta una serie di dubbi, fino alla presenza di due finali, uno a lieto fine (edizione di Venezia) e uno tragico (edizione di Ferrara). A Firenze si è scelto il finale ferrarese, in cui Tancredi muore subito dopo avere appreso la fedeltà dell’amata Amenaide, con il semplice recitativo accompagnato e poi la cavatina finale che riflette l’animo dell’eroe morente sul sottofondo dei soli strumenti ad arco.
Dopo il Tancredi medioevale del 1982 con entrambi i finali e quello disneyano del 1991 a lieto fine, Pizzi stupisce ancora con un Tancredi ancora diversissimo, di neoclassica purezza e di luminosa eternità, molto elegante e formalmente ineccepibile. Su spazi metafisici inondati dal sole di Sicilia si muovono impercettibilmente i personaggi, quasi bassorilievi di immobilità classica e al tempo stesso di romantica sensibilità. Dominante è la scarna essenzialità di vuoti e pieni, le stesse architetture vagamente doriche e certamente dechirichiane si alzano e si abbassano, rivelando nuovi inattesi scorci, sullo sfondo un ulivo e il profilo solenne di un cavallo senza cavaliere. Luoghi simbolici. Un universo desolato e vuoto. Essenziale anche l’uso del colore, oltre al bianco-nero che costituisce la cifra stilistica di tanti allestimenti del regista, anche il rosso sangue dell’abito di Tancredi, che si contrappone agli altri, rispetto ai quali è un diverso, in quanto straniero, in quanto innamorato, in quanto la pensa non come gli altri, in quanto non omologato: e per questo deve lottare e confermare in ogni momento la sua dignità e la sua lealtà, continuamente, fino a morire per un ideale di libertà, fino a morire per amore. Pizzi ci ha abituato a scene indimenticabili, qui l’arrivo in barca in controluce di Tancredi, il suo essere portato a spalla dopo il combattimento, la lama di luce del finale, la gabbia in cui è chiusa Amenaide proiezione di tormenti interiori e sensi di colpa, l’inclinarsi indietro di un muro che diventa pavimento.
Parimenti essenziale la direzione del maestro Frizza, con poche concessioni ai fuochi d’artificio barocchi tipici di Rossigni, anzi esaltando gli accenti romantici della partitura, senza alcun virtuosismo. Un’operazione di certo funzionale alla messa in scena e perfettamente in accordo con l’ottimo cast, ma che lascia dei dubbi. Infatti tale lettura funziona benissimo nell’overture, con fiati oboi e fagotti sul pizzicato degli archi, oppure nel finale con il lungo pianissimo, ma in altre parti si sente un poco la mancanza delle arditezze del Pesarese: Tancredi, seppure contiene elementi di grossa novità che Frizza fa emergere, non è ancora opera romantica.
Nel ruolo del titolo Daniela Barcellona è meravigliosa e provoca continue emozioni. Il suo seducente timbro brunito privilegia il lato romantico del personaggio, secondo la scelta registica. Nell’aria più famosa dell’opera, “Di tanti palpiti”, il contralto è misurata e convincente nella voce, nell’aspetto, nei gesti e il giovane guerriero alla scoperta della gloria e dell’amore strappa lunghi e meritati applausi al pubblico, nonostante non sia infiocchettato di coloriture, in linea con il contesto scenico. Ma la sua interpretazione è sempre piena di vigore, nell’accentazione e nella coloritura, come nella gestualità e nella dominante presenza scenica: un Tancredi che vuole combattere per affermare il suo amore, la sua ansia di libertà e la sua dignità, privo però di ostentazioni anche a livello vocale, puntando piuttosto sulla tenerezza dell’espressione e sull’eleganze dell’emissione e arrivando così a punte da antologia nella cavatina “Di tanti palpiti” e nell’emozione del commovente e stupefacente finale tragico, giocato su un filo di voce e perfettamente accompagnato dall’orchestra del Maggio.
Argirio ha la classe e l’esperienza di Raùl Giménez, che conferisce al personaggio distinzione regale e dignità. Amenaide ha la presenza seducente e la voce sontuosa e vellutata di Darina Takova, il cui timbro e la presenza scenica sono efficacissime: splendida la sua aria nella prigione con l’oboe prevalente e la voce scurita, sempre piena e vellutata, rotonda e morbidissima. Con loro l’Orbazzano di Marco Spotti ha voce scura e a tratti un po’ metallica, la convincente Isaura di Barbara di Castri ed il sorprendente Roggiero di Nicola Marchesini, con una stupefacente e sicura voce da contraltista che arriva a una gamma di colori inaspettata.
Saltata la prima di venerdì 21 ottobre, quando l’opera è stata sostituita da un partecipatissimo concerto-protesta contro i tagli al FUS, la replica pomeridiana della domenica, quella a cui io ho assistito, è divenuta prima rappresentazione, dunque con la presenza del primo cast.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Firenze, teatro Comunale, il 23 ottobre 2005
Visto il
al
Maggio Musicale Fiorentino
di Firenze
(FI)