Lirica
TANNHäUSER

“Tannhauser” a Modena dopo 120 anni, fra polemiche e contestazioni

Tannhäuser 
Tannhäuser  © Rolando Paolo Guerzoni

Hanno fatto bene, i teatri di Modena e Reggio Emilia, ad imbastire una coproduzione del Tannhäuser con l'Opernfestspiele di Heidenheim. Città bavarese dove l'opera è andata in scena, l'estate scorsa, fra le mura dell'imponente castello di Hellenstein. 

La produzione è quindi traslocata pari pari dapprima al Teatro Comunale Pavarotti Freni, dove l'abbiamo raggiunta, e di seguito al Teatro Valli. Meglio unire le forze, poiché allestire come si deve un'opera di Wagner, in Italia, è un'impresa ardita nonché complicata. A Modena, poi, Tannhäuser era andata in scena un'unica volta nel lontanissimo 1903.

GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA

Musica eccellente, drammaturgia deviante

Bilancio in parte positivo, in parte negativo. Il lato musicale, in linea di massima, è apparso stimolante. Questo perché l'Orchestra Toscanini, impegnata in un repertorio per lei inusuale, “canta” con un respiro vigoroso, suona benissimo - encomiabile la sezione dei fiati – e lo fa con slancio e precisione. 

Merito, va da sé, in buona parte della guida di Marcus Bosch, dal 2010 responsabile artistico del Festival di Heidenheim. Conductor di vasta esperienza, e dalla condotta musicale avveduta. Al quale non difetta certo il gusto della grandiosità, dell'epos, dell'intensità narrativa, sino a spingersi a ricercare sonorità rotonde e scolpite. Senza per questo sacrificare, allorché serva, le opportune sfumature e gli abbandoni lirici.

Leah Gordon

Dalla Baviera con passione

La compagnia di canto è ben rodata dalle precedenti recite bavaresi, per cui – fatta eccezione per la Venus sfibrata, calante, sgradevole di Anne Schuldt – porge nell'insieme una prova encomiabile. La parte di Tannhäuser è ostica, oltre che smisurata: Wagner la scrisse senza curarsi della sua eseguibilità, per questo in pochi ne corrono i rischi. Nondimeno James Kee, buon heldentenor americano, la domina con maestria e buoni mezzi naturali, tratteggiando un eroe giovanilmente ardente, teso e nevrotico. Leah Gordon è un'Elisabeth dagli acuti lucenti e frementi, accompagnata da un timbro pieno, rotondo e morbido; e perfettamente in grado di offrire espansive e soavi modulazioni. Birger Radde propone un eloquente Wolfram, massiccio ed imperioso nella voce, maestoso e nobile nel carattere. 

Persuadono appieno anche l'aristocratico ed austero Landgraf di Tijl Faveytis, il Walther di Martin Mairinger, il Biterolf di Young Kwon, l'Heinrich di Christian Sturm, il Reinmar di Gerrit Illenberger. Julia Duscher è il giovane pastore. Spettacolare per morbidezza di suoni e per nitidezza il Coro Filarmonico Ceco di Brno, istruito da Petr Fiala.

Anne Schuldt

Ahi, ahi, riecco il regietheater

Le note dolenti cominciano dalla direzione scenica di Georg Schmiedleitner, ennesimo esempio di pessimo regietheater.  Ci viene imposta infatti una regia sconcertante, incline a stravolgere il senso d'un libretto, ed a provocare forti reazioni del pubblico. Ma, di fatto, col risultato di remare contro la musica. 

Siamo ai tempi odierni, suppergiù: lui ed lo scenografo Stefan Brandtmayr ci propongono in apertura, al posto del Venusberg, un motel/bordello dove si passa il tempo fra giochini erotici e slot-machines, gestito da Venere in veste di maîtresse. Tannhäuser annoiato, smanioso, trasandato, sta in tuta sportiva; dopo averlo abbandonato, incontra nel bosco gli amici cacciatori palesemente brilli, dato che si trascinano dietro una cassetta di birre. 

Al posto del mistico corteo dei pellegrini, una folla armata di carrelli e cestini che attende impaziente l'apertura di un supermarket. Nel cimento dei cantori a Wartburg, il protagonista è abbigliato da rockstar, in divisa sbarluccicante: insolente, maleducato e cafone, disturba tutti, molesta le signore e piscia persino in mezzo ai nobili invitati. Ed alla fine ecco il suo strangolamento da parte di Wolfram, che quindi senza indugio si taglia la gola. Riappaiono Venere in gran spolvero, ed Elisabeth trasformata in prostituta.

Corby Welch (© Oliver Vogel)

Poveri noi...

Che dire? Dobbiamo sopportare a fatica una drammaturgia fuorviante, velleitaria oltre che volgare, e una visione registica che mortifica e penalizza indiscutibilmente un versante musicale di ben altro livello. Gli abiti di scena sono di Cornelia Kraske, le luci curate da Hartmut Litzinger.

Noterella finale, il cruccio di vedere domenica non pochi posti vuoti in platea. Alla prima, ci dicono, s'è vista più gente; ma vi sono partite anche sonore reprimende all'indirizzo dell'altro primo tenore – un Corby Welch in chiara difficoltà – come pure della Venere della Schuldt. Ed ovviamente contestazioni verso la regia.
 

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Visto il 13-11-2022