Tannhäuser ha necessariamente un rapporto privilegiato con il Comunale di Bologna, essendo stato suonato per la prima volta il Italia proprio nella sala del Bibbiena, d'altra parte come quasi tutte le opere del compositore, al punto che egli ebbe la cittadinanza felsinea ad honorem (mentre la prima dell'opera in versione originale tedesca è alla Scala nel secondo dopoguerra).
La versione di Dresda rappresentata come spettacolo inaugurale della stagione 2011 (passata ad anno solare) non ha il baccanale nel primo atto e dunque la presenza di Venus è più contenuta nei tempi e nei modi.
Ciò consente al regista Guy Montavon un approccio personale al dualismo amor sacro/amor profano, rappresentando invece egli in questa produzione del teatro di Erfurt una realtà guidata dalla letteratura. Il Venusberg è un mondo vuoto, in cui Tannhäuser, che legge e scrive, appare come un "diverso". La punizione di Venus è strappare il libro-diario, pagina dopo pagina, gettandole per terra, mentre lui le raccoglie con infinito amore, consapevole del loro valore. I due sono come sospesi dietro un velatino su cui vengono proiettate immagini di un mare luccicante, un mare che pian piano sale dal basso riempiendo il boccascena e facendo sparire il cielo plumbeo. Viene sottolineato il passaggio di Tannhäuser "Mai fu il mio amore più grande, più vero, di com'è ora che da te devo fuggire per sempre" con la proiezione sul velatino del testo in tedesco. Una grande luna gira vorticosamente su sé stessa e nello spazio, emblema di Venus e di un mondo al di fuori del tempo umano (il mare e la luna restano come segno di Venus anche nel terz'atto, quando si sente la voce di lei fuori scena, ma, al rifiuto di Tannhäuser, l'immagine del mare scintillante diviene fissa, bloccata, irreale).
Invece il mondo di Elisabeth è una biblioteca, la biblioteca di Weimar dopo il recente incendio: un'enorme libreria è vuota e puntellata, i grossi, antichi volumi appoggiati a terra. In questo spazio si muovono coro e solisti, sulle tavole del palcoscenico oppure su una pedana leggermente inclinata il cui pavimento è screpolato, come terra assetata, riarsa, spezzata in placche, abbisognosa del nutrimento della cultura. Per un momento appare sul fondo la foto della biblioteca ovale su due piani, mentre il testo in tedesco scorre sopra.
Meno necessarie le transenne che separano all'inizio Tannhäuser dagli altri cantori. I coristi-pellegrini sono scalzi, avendo lasciato le scarpe in un circolo di sapore iniziatico che rimanda al loro camminare. Al grido di Elisabeth "Halten eit" fiamme si levano dal pavimento tra i libri: per spegnerle arriva un pompiere in divisa e casco protettivo con un telo ignifugo.
Nel terz'atto una pioggia scende su Tannhäuser, anche simbolicamente a spegnere il rogo di poco prima, quel rogo a cui sono stati condannati i versi del protagonista.
Il finale è illuminante: un bambino è di fronte a una libreria zeppa di volumi, ne sceglie uno, nel prenderlo fa cadere una palla del tutto simile a quella che identificava Venus, ma non se ne cura, la palla rotola via e il bambino si siede a terra per leggere. I libri come guida, la spiritualità che prevale sulla materialità, la ragione che domina i sensi.
Per il resto la regia sceglie una gestualità contenuta e movimenti scontati. Significativo lo spazio scenico di Edoardo Sanchi, rigorose geometrie grigie e un uso non massivo della tecnologia. Brutti i costumi di Amélie Hass, abiti contemporanei ed anonimi.
Stefan Anton Reck ha diretto in modo rigoroso, bilanciando i suoni e rispettando i tempi, privilegiando un suono leggero, mai eccessivo. L'orchestra del Comunale ha risposto bene, come anche il coro, preparato da Lorenzo Fratini.
Ian Storey è un Tannhäuser pensieroso e tormentato, agée, amante della cultura e dei libri che, come i santi nelle iconografie tradizionali, è sempre identificato con un oggetto, avendo sempre con sé un libro dalla copertina rossa (che a un certo punto resta solo negli spazi smisurati e vuoti della libreria: il disagio di sentirsi diversi); Storey comincia un poco in difficoltà nella zona acuta della tessitura vocale, poi, accantonato il Venusberg, il suo canto prende spessore e giuste intonazioni in ogni registro, convincendo appieno.
Orla Boylan è una Elisabeth in giallo, unica macchia di colore nel grigiore di scene e costumi; la voce ha un eccesso di vibrato e le mezze voci sono poco a fuoco. Espressivo e con bel colore di voce il Wolfram di Alexey Bogdanchikov, nonostante sia un poco corto nell'alto. Non abbastanza autorevole Enzo Capuano, un Hermann che si confonde tra gli altri anche per scelte registiche: prima del certamen distribuisce tra i cantori dei volumi che aveva in mano, un po' come il direttore dell'archivio. Elena Lo Forte è una Venus con pochi colori e una certa fissità di voce, schiacciata sul registro centrale e sul forte. Poco convincente Gabriele Mangione (Walther). Con loro Valdis Jansons (Biterolf), Armaz Darashvili (Heinrich) e Christian Faravelli (Reinmar). Completano il cast Guanqun Yu (giovane pastore), Rosa Guarraccino, Fanny Fogel, Nadia Pirazzini e Lucia Michelazzo (quattro paggi).
Poco pubblico ma alla fine applausi per tutti. Da rilevare che all'inizio è stato suonato l'Inno d'Italia in onore dell'articolo 9 della Costituzione, di cui è stata data lettura.