Milano, teatro alla Scala, “Tannhäuser” di Richard Wagner
TANNHÄUSER INDIANO
Dopo l'incandescente e ipertecnologico Ring visto a Firenze e la bambolona del Macabre di Ligety all'Opera di Roma, i (finalmente) arrivano alla Scala con un Tannhäuser fondato sugli stessi schemi di comunicazione, i video, le macchine, le proiezioni, la tecnologia. Nella sostanza la storia rimane la stessa, ma viene ambientata in India, dove il passato è giunto a noi in continuità con il presente e il medioevo è ancora nella vita di tutti i giorni mescolato con la più moderna tecnologia. Questo rende scintillante la messa in scena ma, in parte, elimina quel senso di epico e sacrale che c'è nell'originale.
Lo stile della Fura dels Baus è noto e inconfondibile: il loro uso delle tecniche visive più moderne rende, con un solo colpo, sorpassato tutto il resto. Le proiezioni danno un apporto fondamentale all'economia dello spettacolo. All'inizio ecco il tema: Tannhäuser cerca di opporsi al destino che porta scritto nel palmo della mano. Le linee della mano corrono sul velatino, il monte di Venere, il monte della Luna, un intreccio di vita e destino. E l'uomo gira nella ruota di Leonardo: uomo rinascimentale, razionale e faber fortunae suae? In fondo si dibatte sempre sulla supremazia dell'amore carnale su quello spirituale o viceversa, un nodo che Wagner non scioglie.
Il Venusberg è un termitaio di corpi nudi, magma quasi indistinto di corpi che si uniscono a due, a tre, a quattro, immagini principalmente di natiche e seni. Mentre queste immagini, in avvicinamento, si contorcono sul velatino e sul fondale, funamboli appesi a corde rosse compiono evoluzioni nell'aria, ballerine impegnate in lap-dance (ma senza palo) si muovono in tacchi vertiginosi a spillo vestite solo di strass, sirene sguazzano dentro un acquario con movenze di nuoto sincronizzato e acrobati “camminano” (tenuti su da funi) sul fondale lasciando ad ogni passo scie di fuoco come comete. Tannhäuser e Venere giacciono sopra una collinetta, una specie di grande torta spostata sul palco da una corona di corpi nudi. I video rimandano colori e sensazioni di fuoco, la passione è ardente. Ma presto Tannhäuser annuncia la decisione di tornare nel mondo e le immagini raggelano, i colori dominanti diventano celeste e blu e, invece delle fiamme, ecco acqua e nuvole. La passione d'amore travolgente è bene esplicitata dai corpi caldi e vibranti nelle loro nudità. Ma, al momento dell'annuncio della partenza, questi vengono sostituiti da mimi che impersonano le statue dei templi di Khajuraho e Konarak, immagini pietrificate di un amore che ormai appartiene al passato. E, sul fondale, una zolla di terra a forma di cuore umano vola nell'aria.
I pellegrini sono ovviamente indiani: donne in sari colorate con la testa coperta dal pallao, uomini in dhoti e turbante, sadhu con le lunghe trecce e il petto nudo e brahmini in bianco. Il landgravio e i cantori sono cacciatori, muniti di balestre e frecce e abbigliati con colori mimetici intenti a cacciare uno stormo di uccelli in video; dagli zaini dietro le spalle spuntano rami secchi come corna di cervo. E i video rimandano immagini di terra in stile Google earth.
Emblema di questo Tannhäuser è una mano gigante semovente, frutto di modernissima tecnologia. Nel primo atto è, in un paio di momenti, appoggiata a terra dalla parte del polso con le dita che puntano verso l'alto. Nel secondo atto è appesa in alto, incombente sulla scena, le dita piegate verso il basso. Un tecnico al computer a vista in proscenio crea elaborati disegni sulle dita e sul dorso della manona come se fossero i tradizionali disegni con l'hennè: è la mano elegante e delicata di Elisabeth, vestita in sari dorata con pallao velato, il bindi in mezzo agli occhi e chili di oro al collo e alle braccia (lo studio di dettagli “indiani” è talmente curato da arrivare alle comparse con i copriorecchie di paillettes, quei copriorecchie che chi è stato in India anche una sola volta non dimentica). Un balletto in perfetto stile bollywoodiano introduce l'atmosfera della Wartburg e del certamen, mentre cavalieri e dame, che si dispongono in due gradinate sullo sfondo anch'esse a forma di mano stilizzata, sembrano usciti da una corte rajasthana, un corteo di maharaja nei caldi colori arancio, rosso, giallo e fucsia e le collane di fiori al collo. La scena è ripresa da una telecamera e illuminata da due proiettori a vista.
Il certamen perde di sacralità ed epica a vantaggio di una spettacolarità tecnica e visiva. Nel finale d'atto l'immagine sul fondo è un deserto con tromba d'aria in avvicinamento, Tannhäuser è appeso in alto come un bersaglio.
Il terzo atto si apre con foglie autunnali che cadono. Elisabeth prima è nell'incavo della mano, poi viene issata in alto e, dai suoi occhi, escono lacrime, fiumi di lacrime scorrono su due scivoli e si raccolgono sul palcoscenico a formare un piccolo lago, un lago sacro di acqua rigeneratrice. Il colloquio di Tannhäuser e Wolfram si svolge sullo sfondo di donne che lavano i panni nel laghetto, poi, con il riferimento al papa, sulle lenzuola-sari stese ad asciugare vengono proiettate immagini di papa Giovanni Paolo II tratte da un TG della Rai con il logo bene in evidenza. Nel finale il corpo di Elisabeth è su una barca con i lumini colorati, mentre dalla sommità dei bastoni dei pellegrini spuntano foglie verdi.
Davvero tanto, in alcuni momenti troppo. Se l'ambientazione indiana è spettacolare per luci e colori e molto suggestiva, alcune idee sono meno riuscite (i costumi dei cacciatori, le lacrime di Elisabeth, le immagini del papa). Ma il resto è emozionante, come sempre frutto di un lavoro di gruppo: alla regia di Carlus Padrissa si aggiungono i video di Franc Aleu, le scene di Roland Olbeter e costumi di Chu Uroz.
Zubin Mehta è al quinto Wagner con la Fura e ormai debbono essere in totale sintonia, soprattutto in questo caso in cui il suggerimento per la messa in scena viene proprio dal direttore, che al regista Padrissa ha rivelato essere il suo Venusberg le colorate processioni del Rajasthan. Mehta affronta la partitura in modo equilibrato, con mano ferma e grande tranquillità, quasi a compensare l'eccesso di video in palco. A momenti la musica pare un poco pesante, tinta di una grevità magari necessaria a sostenere le immagini in video. L'orchestra lo segue con fiducia e le sezioni degli archi sono a fuoco; mi è sembrato esserci un eccesso di sonorità negli ottoni. Coro perfettamente preparato da Bruno Casoni, a cui si è aggiunto il coro di voci bianche del teatro alla Scala e del conservatorio Verdi di Milano diretto da Alfonso Caiani.
Buono il livello dei cantanti. Robert Dean Smith è un corretto Tannhäuser (ma non altro) che mostra una certa fatica in alcuni passaggi nel registro alto. Splendida la Elisabeth di Anja Harteros, la migliore della serata: una struggente Elisabeth dalla voce morbida e malinconica, intensa, brunita e in grado di salire senza difficoltà alle note alte e di tornare a centri luminosissimi e vellutati. Roman Trekel è un Wolfram dalla bella presenza scenica in uno splendido costume multimediale arancione; la voce emerge poco rispetto agli altri nel certamen ma nel terzo atto brilla per intensità e colori, esprimendo appieno la sentimentalità del personaggio. Ottimi e wagnerianamente adeguati Georg Zeppenfeld (Hermann) e Martin Homrich (Walther). Con loro Ernesto Panariello (Biterolf), Enrico Cossutta (Heinrich), Petri Lindross (Reinman) e la giovane Elena Caccamo. Più debole vocalmente la Venus di Julia Gertseva, imponente nel fisico e vestita solo di catenelle di strass luccicanti.
Teatro affollato, molti applausi e qualche contestazione all'inizio del terzo atto: questo è uno spettacolo che non lascia indifferenti e che divide il pubblico.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Teatro Alla Scala
di Milano
(MI)