Una premessa, subito: in questo Tannhäuser veneziano, il primo affrontato dalle maestranze della Fenice dopo il lontanissimo 1969 - visto che nel 1996 venne portato a Venezia dall'Opera di Chemnitz – quello che conta veramente alla fine è la musica, molto meno lo spettacolo in sé. Questo perché la regia di Calixto Bieito – già vista ad Anversa e Gand nel 2015, e prossima ad approdare a Genova e Berna – si mostra alquanto ambigua e confusa nel suo sviluppo, e solo una cosa vi risulta ben chiara: cioè che per l'estroso artista castigliano i motori di tutta l'opera sarebbero la pulsione sessuale e la violenza fine a sé stessa. Venere nel dipanarsi dell'Ouverture vaga strusciandosi smaniosa tra le piante di un bosco all'insù – luogo tetro e caliginoso, senza ninfe, né sirene, né coppie d'amanti, ovvia la voglia di andarsene - per poi piazzare rabbiosamente Tannhäuser a copulare tra le sue cosce. Elisabeth alla fine della tenzone dei minnersänger si trova a respingere le loro insistenti molestie, e quando poi prega la Madonna perché il suo eroe ritorni assolto - in realtà, ci viene descritta da Bieito come una demente che si nutre d'escrementi – patisce pure il bondage e un tentativo di soffocamento da parte di Wolfram, tramutato d'un botto in un abbietto corteggiatore.
Esasperando ancora più l'impianto wagneriano, il concetto sarebbe quello di contrapporre al massimo grado l'amore profano all'amore idealizzato, ponendo in aspra opposizione la figura della dea, donna libera e senza inibizioni, e quella della giovane vergine, prigioniera del suo amore disperato. E per di più vittima di una società biecamente maschilista e dai tratti persino tribali, come vorrebbe suggerirci il crudo rito d'iniziazione – un reciproco spargersi di sangue - al quale gli amici cantori assoggettano sé stessi ed il ritrovato Tannhäuser. Singolare a questo punto però che l'inattesa esaltazione dell'erotismo più carnale, da parte di quest'ultimo, scateni il perbenismo e la sdegnata riprovazione dell'intera corte del Langravio. In definitiva, mi pare che nella regia di Bieito molto rimanga sospeso, molto talvolta appaia banale, ed alcuni momenti siano persino irritanti; e se pur si intravedono idee magari interessanti, sono poi mal sviluppate, oppure risolte solo in minima parte. Neppure si comprendono certe altre bizzarrie: perché, ad esempio, le due protagoniste femminili indossino entrambe solamente una sottoveste scura, con uno straccetto sopra; perché i pellegrini, la cui apparizione è uno dei momenti forti dell'opera, restino nascosti sullo sfondo; né perché i cantori, costretti ad aspettare supini per terra - come chierici all'ordinazione sacerdotale - il loro turno per intonare la propria ballata, debbano far poi tanto chiasso per fustigare Tannhäuser – in realtà, percuotono a terra con rabbiosa violenza una frasca dietro di lui – prima di cacciarlo dal castello. A proposito di costumi, quelli approntati da Ingo Krügler sono di rara bruttezza, tutti intenzionalmente senza uno stile preciso. Vedi come vestono i cantori, prima in felpe e braghe sgangherate poi - come tutta la corte – con orrendi abiti senza sesto, quasi pescati a caso dagli scaffali d'un trovarobe. Da parte sua la scenografa Rebecca Ringst disegna per il Venusberg una tetra foresta dalle fronde girevoli, la sala del castello di Hermann con un candido e severo colonnato, e consegna al terzo atto una via di mezzo tra le due cose, evocando un luogo di squallide rovine, dove nel Finale i pellegrini appaiono strisciando. Che dire? Anche in questo caso, siamo vittime del regietheater più dissacrante ed esaltato. E qui alquanto offensivo per la musica.
Tannhäuser è prima opera wagneriana senza numeri chiusi, che anticipa la definitiva struttura aperta dei lavori successivi. La sua fu, come si sa, una progettazione laboriosa, da vero work in progress mai veramente definito. Qui alla Fenice viene presentata una variante mista di due edizioni, con il primo atto di Parigi (1861) e gli altri due della primissima versione (Dresda 1845), tralasciando quindi l'edizione più consueta e frequente nei teatri, quella di Monaco 1867. Quindi le maggiori differenze le ritroviamo all'inizio, dopo che la Ouverture si distende nel canto delle sirene, con una Venere scenicamente più rilevante ed in qualche misura francesizzata. A presiedere questo allestimento il trentacinquenne Omar Meil Welber, che nella maggiore sala veneziana è ormai di casa avendovi diretto da qualche tempo a questa parte un po' di tutto - soprattutto Donizetti e Bellini - con encomiabili e rassicuranti risultati. Nell'ambito wagneriano pare però scoprire una dimensione più consona al suo carattere, perché questo suo Tannhäuser – opera affrontata per la prima volta - appare veramente ammirevole non solo per la grande attenzione esecutiva, l'arioso impeto sinfonico impressovi e per il vigore dei dettagli strumentali; ma ancor più per la coerenza drammatica e la marcata continuità impressa alla esposizione narrativa. Fattori che gli permettono di tenere uniti in un ammirevole arco espositivo i singoli episodi, lavorando sulla partitura più frammentata e meno lineare di Wagner; e di sostenere con ammirevole souplesse il faticoso lavoro dei cantanti concertando con idee molto chiare, e polso fermo e sicuro. L'Orchestra della Fenice, poi, non solo suona bene in ogni sua sezione, lavorando con bella precisione (salvo qualche perdonabile défaillance negli ottoni), ma sotto la bacchetta del direttore israeliano sembra “cantare” in piena libertà, elaborando una “sua” sonorità wagneriana dai tratti particolari, mai massiccia né tanto meno greve, offrendo un respiro leggero ed un suono fascinoso, caldo ed insinuante, che verrebbe da definire – se l'aggettivo non fosse abusato – tipicamente mediterraneo. Caratteristiche peculiari che peraltro si potevano avvertire già nella avvincente Tetralogia concertata anni fa da Jeffrey Tate. Anche il bravissimo Coro della Fenice, debitamente preparato da Claudio Marino Moretti, adempie al suo compito con grande impegno e notevole espressività.
Come sempre accade in Wagner, la parte del protagonista è impervia e scomoda. Qui, forse ancor più che in altre situazioni: per la scabrosa scrittura, certo, ma anche per varietà di accenti richiesti, con pagine che vanno dallo slancio eroico e passionale del tête–à–tête con Venere, dove il canto è baldanzoso e disteso, alla forte intensità recitativa richiesta dall'improba narrazione del pellegrinaggio al III atto; un possente declamato la cui scrittura sconfina in territori baritonali. Se un affaticato Stefan Vinke ha dovuto purtroppo dare forfait dopo la prima, il rimpiazzo con Paul McNamara sembra la classica pezza dell'ultimo momento. Per carità, il tenore irlandese è artista di notevole esperienza, uso a sostenere molti ruoli di caratterista, e qui gioca bene le sue carte portando a termine in qualche modo l'incarico ricevuto. Però non si può ignorare come il timbro sia un po' arido, la riserva di fiato non inesauribile, l'intonazione talvolta ondeggiante, la linea vocale nell'insieme generica ed altisonante. E' tutto cioè, fuorché un Tannhäuser non dico memorabile, ma quantomeno rispettabile.
Al contrario di McNamara, nei confronti di Cristoph Pohl non ci sono da muover obiezioni, perché il giovane artista della Staatsoper Dresden sa essere uno straordinario e poetico Wolfram. Privandone la figura d'ogni inutile retorica, vi infonde ragguardevole espressività, autorevolezza scenica, timbro vellutato e piacevolmente brunito: è lui, insomma, la vera punta di diamante del settore maschile del cast, completato dal musicalissimo Walter del tenore americano Cameron Backer, e dal modesto e svigorito Langravio del basso estone Pavlo Balakin. Nonché dal Biterolf di Alessio Cacciamani, dall'Heinrich di Paolo Antognetti e dal Reinmar di Mattia Denti, tutti ottimi comprimari.
Ed ora le donne. Il soprano lituano Ausrine Stundyte è una Venus di apprezzabile spessore drammatico: personalità vigorosa, voce ferma e consistente (oltre che gradevole nel timbro e omogenea nella gamma), fraseggio intenso e comunicativo sono le sue doti principali. La figura affidatale, dunque, appare complessivamente centrata e ben definita scenicamente. A completare il terzetto di interpreti baltici presenti in questo Tannhäuser lagunare troviamo il soprano lettone Liene Kinca, alla quale purtroppo deprecabili scelte registiche impongono d'essere una Elisabeth nevrotica sino al parossismo. Quindi lasciamo in secondo piano talune riserve che scaturiscono dalla durezza avvertibile nella resa musicale del suo personaggio, e passiamo ad apprezzare la solidità della colonna di fiato, lo slancio lirico che bene o male riesce ad affiorare - vedi la bella preghiera del III atto – e il cospicuo bagaglio di colori che si intuisce quale buona prerogativa. Il giovane pastorello – particina da non prendere sottogamba - era assegnato ad una voce bianca, ahimé alquanto incerta; più saggio sarebbe stato affidarlo ad un soprano leggero. I quattro nobilgiovani erano membri del Kolbe Children's Choir di Mestre: anche qui non ci siamo.
(foto Michele Crosera)